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Channel: Proverbi napoletani Archives - Vesuvio Live
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“Ogne gghiuorno è taluorno”: quando nasce questo triste detto?

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allarme caldo

Spesso la vita di una persona è in una fase statica nella quale nulla varia, nulla migliora ed il malcapitato si trova in un ciclo costante e sempre identico di ripetizione. Un’amaro detto napoletano riassume questa drammatica situazione con “Ogne gghiuorno è taluorno”: che tradotto letteralmente significa “ogni giorno è una continua ripetizione”. Così come la vita, sono tante le cose che possono trasformarsi in un “taluorno“.

L’espressione, a Napoli, viene, ormai, utilizzata per qualunque situazione fastidiosa che si manifesta con una sorta di continuità: ad esempio, le tasse possono essere tranquillamente definite “taluorno“, oppure una situazione lavorativa difficile o dei cantieri sempre aperti che immancabilmente aprono i lavori alle 7 del mattino. Anche le persone possono arrivare a diventare una ripetizione costante e fastidiosa, specialmente quando ci si mettono d’impegno. “Ogne gghiuorno è taluorno” viene utilizzato spessissimo per redarguire qualcuno che fa di tutto per infastidire o che continua imperterrito a parlare di un argomento poco gradito. In questo contesto il detto ha un significato molto simile a “nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe”, di cui abbiamo già parlato.

Adesso sappiamo quando viene utilizzato e perchè, ma non cosa significa davvero. Abbiamo detto che “taluorno” implica una ripetizione fastidiosa, ma da dove deriva questa parola? L’origine si radica una tradizione molto antica, risalente alle prime civiltà umane: il funerale. In qualunque epoca ed in qualunque parte del mondo i riti funebri hanno sempre rappresentato un modo per accompagnare il defunto verso l'”aldilà” ed unirsi al dolore dei sui parenti. In molte culture, come in quella Greca ed in quella Romana, durante i funerali alcune donne piangevano e cantavano una litania costante e ripetitiva e questa tradizione che si è tramandata fino a pochi secoli fa anche in Italia. In Puglia questo rito veniva chiamato “lu taluèrno”, diventando poi “taluorno” in Campania.

Il primo utilizzo ufficiale della parola, in senso metaforico, come “ripetizione” lo troviamo ne “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile. Nell’opera troviamo già anche il detto “ogne gghiuorno è taluorno” e, quindi, da supporre che nel XVI sec., periodo in cui scrisse l’autore, il termine era già entrato nell’uso quotidiano dei napoletani.

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“Chillo tene l’arteteca”, che cosa vuol dire? La comicità c’entra poco…

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In questi ultimi anni molti avranno ascoltato per la prima volta il termine “arteteca”, grazie al duo comico che si esibisce ogni settimana nel programma Made in Sud. Eppure è una parola che ha origini antiche, che non ha nulla a che vedere con la comicità o con la coppia unita da un legame sentimentale.

“Arteteca” deriva dal latino arthritis che, a sua volta, proviene da arthron cioè “articolo”, “giuntura”. Questa parola è traducibile con “artritide” o “artrite”, una malattia che provoca un movimento convulso delle membra e che i Latini chiamavano anche, più semplicemente, “Gutta”, cioè “goccia”, poiché credevano che il dolore fosse prodotto da un umore che colava a goccia, appunto, nella cavità delle articolazioni. In alcuni scritti è indicata anche come conseguenza del male ipocondriaco. Con il passare del tempo, però, il termine “arteteca” si è allontanato dal suo significato originario ed è stato adoperato per indicare uno stato di agitazione perenne caratterizzato da un movimento fisico continuo. Non è difficile, infatti, ascoltare a Napoli frasi del genere “Chillo tene l’arteteca”, tipico modo di dire che indica una persona che non si riposa mai poiché sempre in attività.

Fonte: Vincenzo De Ritis, “Vocabolario napoletano lessigrafico e storico”, Vol. 1, Napoli, Stamperia Reale, 1845

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“L’asteco chiove e ‘a fenesta scorre”: cosa significa e come nasce

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finestraI proverbi napoletani o i modi di dire, si sa, sono spesso coloriti e crudi, sarcasticamente arguti e densi di fantasia popolare, che caratterizza le loro metafore. Ma a volte, possono anche essere enigmatici. Non subito comprensibili a prima lettura o a primo orecchio; spesso, bisogna investigare un po’ prima di capire quale significato si nasconde dietro il simbolismo verbale, oppure restare qualche minuto a riflettere.

Può capitare, ad esempio, di ascoltare per bocca di una persona anziana le parole: “L’asteco chiove e ‘a fenesta scorre”. Accompagnate, probabilmente, da un viso rassegnato, lontano dall’essere gioviale.

Letteralmente, questo modo di dire si può tradurre così: “Il tetto perde acqua e dalla finestra entra acqua”. Simbolicamente, si riferisce alla contemporaneità di diverse avversità, come a dire non si tratta di un solo problema, ma ne nascono su tutti i fronti.

Dal tetto piove e dalla finestra pure: i guai sono arrivati tutti assieme.

Di conseguenza, essendo il popolo napoletano superstizioso, vuole anche significare che in quel preciso momento della vita, si è particolarmente soggetti alla ièlla, ossia alla sfortuna.

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‘A ‘mpusumatura: sapete cos’è e che significa? Ecco la risposta

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Jean Jacques François Taurel, “Entrata delle truppe francesi a Napoli nel giugno 1799”

Napoli ha una storia antichissima. Con il passare dei secoli è stata dominata da numerose casate nobiliari e da popoli lontani e differenti tra di loro. Dai greci ai romani, dagli ostrogoti ai bizantini. Popoli di selvaggi e di intellettuali hanno calpestato le nostre terre. Eppure, forse, le dinastie che hanno influenzato maggiormente gli usi e i costumi napoletani sono state quelle spagnole e francesi. Questi due regni sono entrati nei tessuti più profondi della società modificando il vestiario, le passioni culinarie e i passatempi. Ma forse il campo che hanno maggiormente influenzato è stato quello più intimo e cioè il linguaggio.

Non di rado si ascoltano, passeggiando per i vicoli partenopei, parole che hanno una risonanza estera perché traggono la loro origine proprio da idiomi francesi e spagnoli. Nella lingua normanna affonda le proprie radici una parola, quasi del tutta scomparsa, che deriva dal vocabolo empeser e che ha dato vita alla ‘mpusumatura. Questo termine che vi sembrerà così strano e nuovo, in realtà, indica un’operazione che svolgete quasi quotidianamente all’interno delle vostre case. Nel passato era un’attività che realizzava la cosiddetta stiratrice che solitamente usava un enorme ferro da stiro nel quale vi era carbone ardente.

mpusumatura

Ma che cosa vuole dire ‘mpusumatura? Semplicemente “inamidire”. Attività classiche della stiratrice erano, infatti, stirare camicie, ed inamidare soprattutto colli e polsini. L’aggettivo ‘mpusumato significa essersi indurito dopo essere stato bagnato in una soluzione di acqua ed amido, chiamata ‘o bagno ‘e pósema, prima di essere stirato. Da questi collegamenti si evince come anche nel significato napoletano il termine ‘mpusumatura assomigli molto all’antenato francese, dato che il verbo empeser vuol dire, appunto, inamidare. Se si dice, dunque, che una persona è ‘mpusumata, si vuole significare che il soggetto è estremamente rigido nei modi di essere o di fare, tanto da risultare goffo.

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A ‘gnora e ‘a socra: i nemici numero uno delle coppie napoletane. Come nasce il termine?

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suocera

Non c’è un comico che, almeno una volta nella sua carriera, non abbia fatto una battuta sulla suocera, lo stesso Renato Carosone cantava di una suocera carabiniere che seguiva ovunque la sfortunata coppia in “io, mammeta e tu”. Effettivamente, specialmente a Napoli le mamme dei coniugi hanno un ruolo fondamentale e, spesso, invadente. La terribile “socra” è la mamma di lui che, privata del suo adorato figlio, fa di tutto per svilire la moglie e rendere la sua vita un inferno. Per quanto possa essere esagerata come definizione, c’è da considerare che, effettivamente, le mamme meridionali sono particolarmente protettive nei confronti dei figli maschi: non li vedranno mai adulti, ma sempre come dei bambinoni che hanno bisogno di loro. E’ naturale, quindi, che nascerà sempre un certo astio nei confronti della donna che, da sempre, allontana l’uomo dal nido: la compagna.

La “‘gnora”, la mamma della sposa, invece, ha problematiche diverse. Generalmente, per la ‘gnora, il marito della figlia non è assolutamente all’altezza di stare al fianco di una creatura tanto nobile. Può capitare anche il contrario, cioè che la mamma non veda ancora pronta la figlia di poter gestire una sua famiglia. In entrambi i casi il risultato resta invariato: la ‘gnora decide che è il momento di intervenire nel neonato nucleo familiare con ogni mezzo a sua disposizione. Cucina, porta la spesa, accudisce i nipoti, si intromette nelle discussioni come arbitro “imparziale”…il tutto per poter dire alla figlia: “te l’avevo detto”. Ovviamente, anche questa è un’esagerazione, anzi, capita molto più spesso che i generi si affezionino talmente tanto alle suocere da farsi accudire come farebbero con la madre, spesso, approfittandone.

E qui, veniamo all’etimologia dei due termini napoletani per indicare le suocere. Generalmente, era d’uso che la nuora chiamasse la socra “mammà” in segno di rispetto e, sopratutto, perchè la donna entrava a far parte della famiglia del marito a tutti gli effetti. Il termine socra veniva utilizzato, quindi, indirettamente parlando con altri della suocera. La derivazione è semplice ricollegandosi direttamente al latino classico socrus (suocera).

‘Gnora, invece, nasce dalla stessa usanza del “mammà“. Abbiamo già detto quanto i maschi napoletani siano legati alle loro madri, al punto da non poter in alcun modo affibbiare lo stesso indispensabile titolo alla suocera…la mamma è sempre la mamma e non ci sono imitazioni, insomma. In sostituzione è stato quindi utilizzato il termine “signora” che, nel parlato comune, è diventato la forma ridotta “‘gnora“.

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“‘O cchiù bunariello tene ‘a guallera e pure ‘o scartiello”: cosa significa?

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i Brutos

i Brutos

La lingua napoletana è costellata di detti e sfottò utilissimi a prendere in giro qualcuno senza mai trascendere nell’offesa vera e propria o nella volgarità. Spesso questi detti si basano sull’estremizzare i difetti presi di mira, fino a trasformarli in situazioni comiche ed immagini grottesche. “‘O cchiù bunariello tene ‘a guallera e pure ‘o scartiello” (il migliore ha l’ernia ed anche la gobba) rientra sicuramente in questa tipologia di frasi. Viene usato per definire un gruppo di persone che certamente non si contraddistingue per abilità o per qualche capacità.

Sarà capitato a tutti di giocare una partita a calcetto con una squadra di pigroni, buoni solo a rimanere in porta, ad esempio, oppure di osservare un gruppo di ragazzi fra cui nessuno spiccava particolarmente in bellezza. Ebbene, in questi contesti, l’espressione “”‘O cchiù bunariello tene ‘a guallera e pure ‘o scartiello” è ideale. Qualcuno, più malizioso, potrebbe anche trovarla adeguata a definire la nostra classe politica. In ogni caso, il detto è ironico sin dal principio, con l’uso del termine “bunariello”: in napoletano, questo diminutivo di “buono” non è mai un complimento, ma indica qualcosa di mediocre, passabile, ma non certo eccezionale. Se qualcosa da mangiare, ad esempio, viene definita “bunarella” vuol dire che è a mala pena commestibile.

Sulla guallera e sulla sua fondamentale importanza nella nostra lingua abbiamo già discusso, mentre lo scartiello è la gobba, ma può indicare una qualunque deformità o incapacità: lo “scartellato” non è solo un gobbo, ma anche una persona incapace o poco agile. Entrambi, insomma, indicano l’essere segnati da qualche deformità o essere in pessime condizioni fisiche od estetiche. Tuttavia, non viene usato sempre per prendere in giro qualcuno. Una famosa filastrocca recita: San Dunato, san Dunato: simmo tutte struppiate chillu llà cchiù bunariello tène ‘a guallera e ‘o scartiello”. In questo caso viene fuori l’autoironia napoletana e viene messa in evidenza una situazione sfortunata, o addirittura drammatica, che coinvolge la persona stessa e quelli a lei cari. Non è chiaro perché venga nominato proprio San Donato, protettore degli epilettici, ma probabilmente è per l’assonanza con “struppiate”.

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“…e buonanotte ai suonatori”: da dove deriva questo famosissimo detto?

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Buonanotte ai suonatoriI proverbi e le frasi fatte che usiamo abitualmente si distinguono in due categorie fondamentali: quelli che in poche parole trasmettono concetti complessi e saggezze antiche e quelli che, più semplicemente, vengono usati quasi come intercalare nei discorsi, per colorire frasi o per trasmettere forza a quanto espresso in precedenza. Quante volte, decisi di voler chiudere una conversazione o mettere un punto, abbiamo chiuso la frase con un secco “…e buonanotte ai suonatori”. Questo modo di dire non ha origini prettamente napoletane, anzi, viene riconosciuto in quasi ogni regione d’Italia, ma a Napoli viene usato molto più frequentemente ed è arrivato ad assumere connotati e significati ben più complessi.

Oltre al mettere fine ad una discussione o ad un accordo, “buonanotte ai suonatori” per i napoletani indica spesso una certa forma di rassegnazione, una resa di fronte ad una situazione che non può essere più cambiata nonostante gli sforzi. Ad esempio, per rimanere in tema di sonno, quando un neonato viene svegliato da qualche rumore durante un riposino è difficilissimo che si riaddormenti ed è molto più probabile che decida di lamentarsi per un bel pezzo; in questa circostanza la madre potrebbe dire rassegnata “ormai si è svegliato e buonanotte ai suonatori”. Più semplicemente quando qualcosa si rompe definitivamente possiamo salutarla desolati con un mesto “buonanotte ai suonatori”. In ogni caso, sta sempre ad indicare una chiusura definitiva, la fine di qualcosa, ma da dove deriva? Perchè la buonanotte viene data proprio ad i suonatori?

La spiegazione è semplice, basta pensare ad un qualunque locale dove si può ascoltare musica dal vivo: beviamo, mangiamo, chiacchieriamo, trascorriamo lì la serata e, quando usciamo, le note della band continuano a risuonare nel locale. Un tempo era molto più comune, per i locali, avere orchestre e musicisti fino alla chiusura, anche quando i clienti si contavano sulle dita di una mano. Quando la musica finiva, quando persino i suonatori potevano andare a dormire, significava che la festa o la serata erano definitivamente concluse e che non c’era più alcun motivo per restare fuori: un po’ come avviene nelle più moderne discoteche. Una canzone dei Pooh intitolata, appunto, “Buonanotte ai suonatori” chiarisce bene il senso di questa condizione:

“E tutti a casa, sotto le coperte
qualche canzone c’è rimasta chiusa
dentro al pianoforte, lasciamo qui
gli ultimi pensieri, buonanotte ai sognatori
agli amori nati ieri
buonanotte a chi farà una buonanotte
anche ai lupi solitari
a chi scrive contro i muri
e alla fine… buonanotte ai suonatori”

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“‘O trenta ‘e maggio ‘a vecchia mettette ‘o trapanaturo ô ffuoco”: cosa vuol dire?

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312i5frArriva il caldo e ognuno di noi è spinto, frettolosamente, ha riporre la manica lunga negli scatoloni per indossare i leggeri indumenti estivi. Senza dubbio, è un comportamento suggerito dalla voglia di godere della bella stagione, del sole e del mare, quando si può.

Tuttavia, forse, a volte abbiamo un po’ troppa fretta di sbarazzarci degli indumenti invernali e, illusi dal pensiero che il caldo ormai è arrivato per non andare più via, non prevediamo cambi di temperatura repentini.

Un antico detto napoletano, a tal proposito, dice: “‘O trenta ‘e maggio ‘a vecchia mettette ‘o trapanaturo ô ffuoco”.

Che cosa significa? E com’è correlato alla questione degli indumenti suddetta? Ebbene, traducendo, letteralmente, il proverbio, viene fuori: “La vecchia, il trenta maggio, mise l’aspo sul fuoco”, in cui l’aspo (detto anche trapanaturo) è l’arnese di legno, a forma di scheletro di ombrello, adoperato da chi tesse a maglia, per arrotolare il filo e ridurlo in matasse, per poi riporlo. Mantenendo al centro il bastoncello di legno, con due mani si compie il tipico movimento di chi arrotola, tra mano e gomito, il filo, di chi “annaspa”: annaspare, infatti, è un termine che deriva proprio da questa pratica e prende il significato di “affaticarsi inutilmente”.

In pratica, la vecchia donna, per un abbassamento improvviso delle temperature, il 30 maggio dovette ardere l’aspo, per far calore. Ciò significa che non dobbiamo mai dare per scontato, nelle stagioni di transizione, il mantenimento delle temperature e il buono o il cattivo tempo. E ne è emblema il mese appena trascorso, il quale, a differenza dei maggio passati, ha presentato un clima abbastanza altalenante, con temperature più vicine alla stagione invernale che estiva o primaverile.

Inoltre, c’è da dire, che questo proverbio è adoperato anche sostituendo il 30 maggio con il 30 agosto, ossia: “A vecchia e’ trenta ‘austo, mettette ‘o trapanaturo ô ffuoco”. In questo senso significherebbe un arrivo precoce delle basse temperature, contro le nostre aspettative. In effetti esiste una disputa sul proverbio e sull’uso effettivo di maggio o agosto come mesi di riferimento. Ma in fin dei conti, le due varianti possono tranquillamente coesistere, essendo entrambe simbolo dello stesso concetto: bisogna aspettarsi sempre un cambiamento, anche quando esso è improbabile secondo le nostre previsioni.

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‘Ntalliarse: ecco tutti i significati e l’antica provenienza di questa parola

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'ntalliare intalliare

Pagina Facebook “La Parlata Igniorante”

Tante parole della Lingua Napoletana che pronunciamo tutti i giorni hanno una lunga ed inaspettata storia alle spalle, che spesso ignoriamo totalmente e, quasi sempre, non provengono dall’italiano ma da altre lingue o da quelle antiche. Il verbo ‘ntalliarse è uno di questi casi: può essere tradotto in italiano come gingillarsi, indugiare, esitare o altri numerosi sinonimi tutti collegati ugualmente al concetto di “perdere tempo”. ‘Ntalliarse è un verbo riflessivo, cioè il soggetto compie e al tempo stesso subisce l’azione e comporta, dunque, la coincidenza fra soggetto e complemento oggetto della frase.

Il termine veniva utilizzato già nel ‘700 dagli autori del tempo e non è mai stato abbandonato da quell’epoca fino a giungere ai giorni nostri, dove è ancora di largo uso comune, in particolare tra i più giovani. Non è conosciuto solo nel napoletano ma si è diffuso in tutta la Campania.

Si possono indicare due significati in particolare riguardo questo verbo: il primo è quello di temporeggiare, attardarsi, tentennare e viene usato soprattutto nei riguardi di chi è lento nell’agire in assenza di una valida motivazione, che prima di far qualcosa tarda pretestuosamente o lo fa in maniera rallentata; un secondo significato fa riferimento ai giovani, in particolar modo è quello di passare il tempo andando a zonzo e spassandosela in compagnia degli amici, oziando e bamboleggiando invece di occupare il tempo impegnandosi in attività più serie.

Nello slang giovanile napoletano spesso si possono sentire espressioni del tipo “nun te ‘ntallià!”, inteso come incitamento a sbrigarsi, non perdere tempo inutilmente o essere troppo lenti e flemmatici nel compiere una certa azione. Allo stesso modo, ad esempio, “m’aggie ‘ntalliate” è spesso utilizzato per giustificare, senza la necessità di ulteriori spiegazioni, il motivo di un ritardo ad un appuntamento e può comprendere contrattempi di qualsiasi sorta che hanno concorso al verificarsi del ritardo, ad esempio l’aver incontrato un amico ed essere stati trattenuti da quest’ultimo a chiacchierare, l’aver incontrato traffico od ancora altri avvenimenti simili che possono dipendere o meno dalla volontà dell’interessato.

Quando si parla di ‘ntalliarse in strada, al bar, a casa di amici o in un qualsiasi luogo pubblico o privato in compagnia di amici o conoscenti spesso si intende in senso di passare piacevolmente il tempo libero chiacchierando, bevendo caffè, facendo aperitivo o compiendo in maniera spensierata qualsiasi genere di attività ludica, rilassante e ricreativa. Essere ‘ntalliato può però intendersi anche nell’accezione negativa, cioè essere un perdigiorno, pigro e di conseguenza poco affidabile se non addirittura apatico, una persona abituata a fare tutto con troppa leggerezza o svogliatezza, a prendere le cose sotto gamba. Lo stesso aggettivo può anche considerarsi in maniera meno grave e più leggera, utilizzato a mo’ di sfottò verso la persona cui viene rivolto.

Ci si ‘ntallea, inoltre, quando ci si imbambola o sofferma più del necessario su qualcosa oppure si rimane bloccati dinanzi ad un ostacolo senza riuscire ad oltrepassarlo.

Si può ipotizzare che l’etimologia del verbo derivi dal termine latino talos (talloni) che segue “in”, formando “in-talos” inteso come “star sui talloni”, in senso metaforico di rimanere immobili, fermi in piedi, restare arrestati ed inerti in una posizione statica; dando in questo modo un’interpretazione esagerata del concetto di indugiare. Un’altra tesi ci porta alla lingua dell’antica Grecia ed al suo “en-thallein”, cioè germogliare. In questo caso ci si riferirebbe alla gioventù che appunto “germoglia”: il verbo sarebbe ispirato ai ragazzi che non sono ancora maturati e preferiscono sollazzarsi anziché darsi da fare, ma anche al modo di dire della lingua italiana di “mettere radici”, come ad aspettare un accadimento che non arriva mai.

Pare che la parola possa provenire anche dal verbo ormai dimenticato dell’italiano antico “aliare” che significa muovere le ali, aleggiare, svolazzare ma anche, in senso figurato e letterario, aggirarsi e vagare.

Fonti:
http://lellobrak.blogspot.it/
http://www.capriblog.it/
http://www.napoletanita.it/

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Arecheta: sapete perché in Napoletano l’origano si chiama così?

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Arecheta, origano

Arecheta, origano

La cucina napoletana è completamente dominata da profumi e sapori unici: spesso si tratta di pochi ingredienti che, da soli, riescono a dare al piatto la sua vera essenza, basti pensare ad una normalissima pizza Margherita e a come una piccola foglia di basilico riesca a completarla. Oltre al leggendario basilico, comunemente detto “‘a vasinicola”, un altro odore fa da padrone nelle nostre ricette: l’origano, meglio conosciuto, solo a Napoli, come “arecheta”. Nella nostra tradizione culinaria si utilizza quasi esclusivamente essiccato e, in seguito, sbriciolato, e sono tantissime le ricette tipiche in cui è elemento essenziale.

La pizza marinara, ad esempio, la più comune e storica fra le pizze, al posto del basilico viene insaporita con un’abbondante manciata di arecheta “addirosa” (profumata), ma è ideale anche per piatti più semplici e casalinghi come una fresca insalata caprese o un’insalata di patate, oppure, ancora, è ideale per condire piatti di mare come alici e cozze gratinate. A Napoli è molto usata anche per insaporire il pan grattato fatto in casa. Abbiamo visto brevemente che il suo utilizzo e la sua importanza nella nostra cucina sia fuori discussione, ma un punto rimane ancora poco chiaro: perché l’origano lo chiamiamo arecheta?

Origano fresco

Origano fresco

Il termine “origano”deriva direttamente dal latino “origanum” che, a sua volta, è diretto discendente del greco “origanon”. Visto che molte parole della lingua napoletana affondano le proprie radici nella lingua e nella cultura greche, questa influenza sarebbe stata la più scontata ed, infatti, è comunque così. Il termine ellenico in questione è il verbo rekto” che tradotto significa frantumare, rompere, spezzettare e che si può semplicemente ricollegare etimologicamente ad arecheta. Per comprendere questa origine, però, bisogna riconsiderare il modo in cui nelle nostre case si produceva l’origano, una procedura che le nostre nonne conoscono molto bene.

La pianta di origano viene fatta essiccare, come abbiamo detto, e,quando è pronta, viene sbriciolata a mano, spesso sfregandola fra i palmi, fino a creare la sottile polvere che possiamo utilizzare. È da questa frantumazione che ha origine il termine arecheta. Una parola che, tra l’altro, ritroviamo anche per i piatti che vengono insaporiti dall’origano. In napoletano, infatti, questi vengono definiti “arrecanati” o “arreganati”, la seconda versione deriva da una mescolanza dialettale fra il termine arecheta e l’italiano origano.

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Impariamo il Napoletano. ‘A puteca: cosa significa e perché si dice così?

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putecaTante sono le parole napoletane che usiamo nella vita di tutti i giorni, però non sempre ci soffermiamo sulla loro origine che spesso è molto antica e risale ai tempi antichi. È il caso della parola “puteca” (putéca), che in italiano si traduce “bottega”, “negozio”, indicando nell’uso comune la classica salumeria, ma che spesso si allarga a un significato più generico di un’attività commerciale.

Secondo uno studio del professore Luigi Casale, il termine deriva dal latino apotheca, che a sua volta deriverebbe dal greco apothéke. Il verbo di origine è composto da apò + tithemi che significa “porre da parte”, pensiamo per esempio ai termini italiani biblioteca, discoteca, enoteca dove il suffisso “-teca” indicava la conservazione e la custodia di qualcosa. Ecco che la “putèca” indica un luogo dove si custodisce qualcosa. Come vediamo la variazione del significato del termine dall’origine ad oggi è impercettibile.

Legato alla “puteca” è la figura del “putecaro”, ovvero il bottegaio, che spesso diventava una figura familiare, che vedevi ogni giorno per comprare gli alimenti giornalieri indispensabili. Secondo un rito antico il “putecaro” conferiva a Natale un “canisto”, cioè un cesto pieno di cibo versando pochi soldi ogni settimana per tutto l’anno. Sembra che questa usanza sia ancora diffusa in alcuni quartieri o alcuni paesi. Molto diffuso è anche il diminutivo “putechella” che indica il “negozietto”.

Il termine “puteca” è anche utilizzato nell’espressione “fare casa ‘e puteca” , la quale indica un unico ambiente dove vivere e lavorare; è legata ad un periodo storico, quello della dominazione spagnola, durante il quale era vietato costruire all’esterno della cinta urbana e quindi i napoletani utilizzavano qualsiasi locale per abitare, anche i negozi, le “puteche”, dove non smettevano comunque di essere esercizi commerciali.

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Da dove deriva il termine napoletano “zòza”?

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zoza

La lingua napoletana è colma di termini ed espressioni esilaranti che vantano un’antica storia. Ne è un esempio la parola zòza: un vocabolo ormai di utilizzo comune che, come tanti altri, proviene dalla lingua francese e che, in questo caso, trae le sue origini dal tardo settecento.
Il termine zòza può essere tradotto in italiano come schifezza e, a seconda dell’espressione nella quale è inserito o, verso chi o cosa viene rivolto, può assumere diversi significati.

Nel caso in cui si riferisca ad una cosa, indica qualsiasi realtà che sia ripugnante e nauseabonda come l’acqua sporca accumulata in un angolo o, addirittura, una pietanza dal sapore disgustoso e sciapito: “Che zòza” e “Sti maccarune sò ‘na zòza”; invece, se riferito ad una persona, denota la sporcizia fisica (“Te fatto ‘na zòza!”) o, ancor peggio, viene utilizzato come espressione offensiva per indicare colui/colei che è moralmente ributtante: “Sì ‘na zoza!”.
Il termine può, per di più, essere ricondotto, non alterando il significato attribuitogli dal vocabolario napoletano, ad una parola toscana: zòzza, che indica una particolare bibita ottenuta mescolando liquori scadenti.

Come già accennato, la parola zòza risale alla seconda metà del ‘700, quando Napoli fu invasa da un gran numero di cuochi francesi in occasione delle nozze della regina Maria Carolina d’Austria con re Ferdinando IV di Borbone.
Il compito dei cuochi professionisti, chiamati in francese monsieur e soprannominati munzù dal popolo partenopeo, era quello di “francesizzare” quindi elevare la semplice cucina partenopea caratterizzata da semplici e veloci sughi a base di pomodoro.
Le loro raffinate ricette, in particolar modo le salse francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova non incontrarono il favore dei napoletani, ad eccezione del surtout, meglio conosciuto come sartù di riso.
Per questa ragione le sauces tanto amate dal popolo francese, furono ribattezzate, o meglio ne fu storpiata la pronuncia sòs, con il nome zòza.

Fonte: http://www.dialettando.com/articoli/detail_new.lasso?id=9294

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Scopriamo il Napoletano. “Accio” significa sedano: perché si dice così?

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sedano accio napoletanoNel nostro percorso alla scoperta della Lingua Napoletana, coi suoi modi di dire e l’etimologia dei vocaboli più curiosi e peculiari, ci siamo ritrovati spesso a spiegare l’origine di parole che indicano i prodotti della terra. Nell’ambito contadino, infatti, la lingua sembra essersi maggiormente cristallizzata, consentendoci di avere una panoramica sulla storia di Napoli attraverso l’influenza, sui vocaboli, dei vari popoli conquistatori: greci, latini, normanni, svevi, arabi, catalani, spagnoli, austriaci, francesi.

Già abbiamo scoperto il significato e la provenienza di sostantivi quali cresommola, cerasa, arecheta, perzeca, percoca, vasinicola, legnasanta e tanti altri, oggi invece l’interrogativo che suscita la nostra curiosità è: perché, in napoletano, il sedano è chiamato accio?

La parola sembra derivare dal latino, da apium: attraverso la corruzione della lettera “p” in “c” col tempo si è passati ad accio, così come avvenuto per la mutazione di sapio in saccio. 

È curioso, inoltre, osservare che in altre lingue europee la pianta è chiamata in maniera simile al Napoletano: in Spagnolo è apio, in Portoghese salsão oppure aipo, in Siciliano accia o acciu, in Catalano api.

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Arriva l’estate: ma perché in Napoletano la chiamiamo ‘A Staggione?

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'a staggioneIl 21 giugno entra l’estate, la stagione dei colori, del mare, delle vacanze, dei tempi lenti…e del buon clima, generalmente. Le giornate di sole rendono piacevoli perfino i turni a lavoro, dopo i quali, c’è ancora il resto della giornata da potersi godere. Sì, perché il tempo si dilata, il sole tramonta più tardi e il piacere di un aperitivo con gli amici è un regalo che puoi farti senza esitazioni. Ed il piacere del corpo aumenta, se si vive vicino al mare, con la brezza tiepida che ti accompagna a salutare il sole. Proprio come accade a Napoli, sul suo lungomare metropolitano e poetico. Ma vi siete mai chiesti perché in napoletano l’estate è conosciuta come ‘A Staggione?

Perché il Napoletano ha sostituito il nome proprio di questa stagione con il sostantivo comune?

Ebbene, meglio fare prima una premessa per quando riguarda le stagioni: per noi napoletani esse non sono 4 bensì 2.

Sì, perché per i partenopei le stagioni sono identificabili con l’inverno e l’estate. Il resto (ossia primavera ed autunno) sono ‘e miez’ tiemp’. Le stagioni miti, insomma, di transizione tra le due più rappresentative dei picchi climatici, hanno un appellativo che si riferisce più al passaggio climatico che alla stagione in sé. Anche se comunque la primavera è una stagione molto apprezzata dal popolo meridionale, grazie all’avvento della fioritura, del primo sole e della rinascita della terra. Sono molte le canzoni classiche napoletane che si riferiscono ad essa, dando centralità al mese di maggio (come Era de maggioTorna maggio, Na sera ‘e maggio ed altre ancora).

Ma torniamo all’estate. La Lingua Napoletana conferisce a questa stagione un ruolo sovrano, nominandola ‘a staggione: ossia, la stagione per eccellenza, che domina sulle altre per gli aspetti gradevoli che regala agli esseri umani e alla natura. Rispetto agli altri periodi dell’anno l’estate ha una posizione predominante. Arriva il sole e con esso i primi bagni; le serate sono calde e pacate, rasserenando gli animi che smaltiscono lo stress quotidiano. Per le popolazioni che vivono in prossimità della costa, l’estate prende un significato più profondo. Diventa emblema di un cambiamento totale, nella vita della gente. Sia perché molti vivono grazie al mare e al turismo, sia perché tutti i ritmi giornalieri cambiano e le giornate sono scandite con tempi e attività rovesciati.

Quindi, è proprio il caso di dirlo: è arrivata ‘a staggione!

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Carusiello: perchè il salvadanaio a Napoli si chiama così?

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carusiello

carusiello

Purtroppo, abbiamo tutti superato quella meravigliosa fase della vita in cui pochi spiccioli sono un’enorme fortuna: figurine, piccoli giochi, caramelle, tutto a portata di mano con quelle monetine che per tutti gli altri sembravano insignificanti. Così, avidi e zelanti andavamo a fare spese, visitavamo nonne e zie, facevamo piccoli lavoretti in casa col solo scopo di sentire le parole magiche: “Tie’, miettil’ indo ‘o carusiello”. Il “carusiello” è, per tutti i napoletani, il più comune salvadanaio anche se oggi il termine viene usato ogni qual volta si parla di somme di danaro conservate.

salvadanaio

salvadanaio

Soprattutto per i più anziani “carusiello” può essere definita la pensione, oppure somme depositate in banca o, addirittura, investimenti, ma il significato simbolico, alla fine, rimane invariato. In realtà il carusiello non è un comune salvadanaio, ma un vaso di creta con il classico foro orizzontale per introdurre monetine, inviolabile a meno che non si fosse ridotto in cocci. Un funzionamento molto simile al classico maialino che vediamo in ogni film.

Perchè non lo chiamiamo semplicemente salvadanaio? Da dove deriva il termine “carusiello“? Per scoprirne le origini dobbiamo risalire ad un’altra parola usata soltanto a Napoli: il caruso. Per caruso, o mellone, si intende una testa rasata o comunque con un taglio di capelli molto corto. Il termine deriva dal latino “cariosus“, che tradotto significa, appunto, glabro, oppure può risalire direttamente al verbo greco “keiro“, che significa tagliare o rasare. Ma cosa collega un salvadanaio di creta ad una testa rasata?

Per capirlo dobbiamo arrivare al periodo della dominazione spagnola, quando i nobili cavalieri della corona erano soliti dilettarsi con giochi e tornei in sella al loro cavallo. Uno in particolare prevedeva il lanciarsi una grossa palla di creta, una sorta di antenato del polo. Questa palla, per il colore marrone e per la somiglianza ad una testa rasata, veniva chiamata “caruso“. I salvadanai del tempo, che erano in tutto e per tutto una versione ridotta e modificata di quelle palle, vennero chiamati “piccoli carusi” e, quindi, “carusielli”.

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‘Nzallanuto: uno sfottò napoletano. Ma sapete com’è nato?

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Mr. Bean

Cammina, non si sa per dove, non si sa perchè, passeggia lentamente, magari guardando distrattamente il messaggio che ha ricevuto sul telefono, e ondeggia quando provi a passargli avanti perchè il marciapiede è stretto. Lo ritrovi mentre sei in macchina ed è lì, sulle strisce, che non sa se passare o meno, ma tu intanto sei fermo da 5 minuti aspettando che decida. Attenzione, perchè potresti ritrovarlo anche in un ufficio ed in questo caso correresti il rischio di dover tornare altre due volte perchè lui ha sbagliato perchè aveva altri pensieri. E’ “‘o ‘nzallanuto” e, qualunque cosa tu faccia o dica, avrà sempre la testa da un’altra parte.

Abbiamo ironizzato un po’, ma, in verità, chiunque di noi è spesso uno ‘nzallanuto. A chi non capita di fare una cosa e pensarne cento altre? Chi non ha mai dimenticato chiavi, telefoni, portafogli? Chi non ha mai ascoltato qualcuno senza capire nemmeno una parola? Che sia per il clima, per i problemi o per sonnolenza “‘a capa” viaggia e, spesso, si perde in galassie lontanissime. Infatti, la parola “‘nzallanuto”, unica e, ovviamente, prettamente napoletana, non è quasi mai un’offesa, ma uno sfottò simpatico o un’esortazione a tornare sul pianeta Terra.

Comune è anche alleggerire ancor di più il termine un un “oggi pari uno ‘nzallanuto”. Addirittura, da sostantivo è diventato anche un verbo nel linguaggio comune: ad esempio, “mi ‘nzallanisci” che significa “mi confondi”, oppure, più educatamente “mi stai dicendo troppe cose tutte in una volta”.

L’origine del termine è incredibilmente antica, nonostante la frequenza con cui si usa attualmente. Più di una volta abbiamo lanciato indizi sul suo reale significato, definendo ‘o ‘nzallanuto una persona che non riesce a rimanere con i piedi per terra. Infatti, il termine deriva proprio dalle alte sfere. Si tratta di una napoletanizzazione di “inselenito” che, comunque, non sembra raccontare niente. Per capirci qualcosa bisogna tornare alla mitologia degli antichi greci: per loro, la Luna era abitata e governata da una bellissima dea di nome Selene.

“Inselenito”, quindi, è qualcuno che ha la testa da Selene, sulla Luna. “‘Nzallanuto” potrebbe essere tradotto di conseguenza, anche se in maniera riduttiva, come “stralunato” o con il detto comune di “persona con la testa fra le nuvole”. Inoltre, nei tempi antichi era credenza comune che il senno, il lume della ragione, perso finiva sulla Luna: leggenda che viene confermata anche da Ludovico Ariosto nel famosissimo pezzo dell'”Orlando Furioso”, quando Astolfo, migliore amico dell’eroe impazzito, vola fino al nostro satellite per recuperargli il senno perduto.

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“Vulé ‘o cocco ammunnato e bbuono”: cos’è davvero il cocco?

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cocco

Il mondo è pieno di gente pigra, ma, del resto, a nessuno piace affaticarsi troppo, salvo in casi di fanatismo e spirito di sacrificio. Insomma, tutti noi vorremmo sempre trovare il “cocco ammunnato e bbuono”, senza dover fare nient’altro che goderci il frutto del lavoro altrui. Il detto napoletano “vulé ‘o cocco ammunnato e bbuono”, infatti, implica questa predisposizione al parassitismo o, se vogliamo, una certa abitudine ad ottenere tutto senza sforzi.

A Napoli viene usato, come spesso capita con detti e proverbi, nei casi più disparati: lo dice ogni possibile vecchietto al parco mentre maledice i giovani d’oggi, che, a differenza sua, vivono mantenuti dai genitori fino ai trent’anni; lo dice un qualunque lavoratore quando si trova a dover fare anche le mansioni dei suoi colleghi a causa del loro lassismo; lo dice uno studente che per anni ha sudato un titolo di studi nel vedere un qualunque “figlio di” superare i concorsi grazie alla raccomandazione del paparino.

Dallo sfottò, alla denuncia sociale “vulé ‘o cocco ammunnato e bbuono” è una definizione universale, ma cosa significa realmente? Soprattutto in questi tempi di spiagge, caldo e mare, il pensiero va subito al carrettino fresco che vende il cocco: tagliato, fresco e buono. Tuttavia, non è del frutto tropicale che si parla, in questo caso. Del resto, a ogni bambino viene dato il “cocco fresco” che il campagnolo ha appena raccolto. Forse perchè richiama il verso della gallina, forse perchè è facile da pronunciare, l’uovo, a Napoli, viene spacciato ai più piccoli come “cocco”.

Per quanto riguarda “ammunnato”, invece, è una trasformazione dell’italiano “mondato”, pulito, quindi, in questo caso, sgusciato. “Bbuono”, infine, è posto come rafforzativo tipico della lingua napoletana (cuotto e bbuono, muorto e bbuono) e serve solo a dare maggiore enfasi all’aggettivo. Insomma, “vulé ‘o cocco ammunnato e bbuono” si traduce in: “Così come succede con i bambini, vuole l’ovetto già sgusciato”. In questo caso, ovviamente, si parla di uovo sodo, visto che sgusciarlo è un lavoro noioso e, spesso, snervante, mentre, già “ammunnato” va solo addentato senza altri sforzi.

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Perché il pane vecchio si chiama “sereticcio”? L’origine e il vero significato

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pane sereticcio

Pane sereticcio

La lingua napoletana è ricca di termini introvabili in qualsiasi altro paese e cultura, parole così precise da non poter essere sostituite in alcun modo e che non avrebbero lo stesso valore dette in italiano. È un esempio la parola “sereticcio” attribuita al pane vecchio di qualche giorno ed ormai duro. È quindi un sinonimo in tutto e per tutto dell’italiano “raffermo”. Bisogna considerare, innanzitutto, l’importanza nella cucina napoletana del “pane sereticcio”.

Come sappiamo, la nostra tradizione culinaria è strettamente legata, da sempre, al civile ed attuale concetto che non si butta via niente. Figuriamoci il pane che da molti è ritenuto sacro ed il simbolo universale del cibo e della tavola. In questo contesto, quindi, il pane sereticcio non è qualcosa da scartare, anzi, un ingrediente a tutti gli effetti da conservare e sfruttare, guai a chi non lo fa. Il sabato pomeriggio è comune vedere signore sprovvedute che bussano alle porte delle vicine chiedendo se avanza un po’ di pane vecchio.

Povertà? No! Il pane sereticcio, bagnato, è la base migliore per le polpette che senza di esso non resterebbero mai così compatte e gustose. Inoltre può sostituire la tradizionale fresella, sempre bagnato, magari ricoperto da pomodori, origano, olio ed un pizzico di sale. Può essere utilizzato per le bruschette, ma questa è una tradizione comune anche nel resto di Italia, oppure inzuppato nel latte al posto dei biscotti, come qualunque nonna napoletana fa ancora quando vuole “tenersi leggera” la sera. Non bisogna dimenticare, infine, che il pane sereticcio è la cosa migliore da sbriciolare in una buonissima zuppa di fagioli…traete le dovute conclusioni.

Abbiamo visto la sua importanza culinaria, ma resta ancora un mistero: perché usiamo il termine “sereticcio”? Come molte parole napoletane, trae origine direttamente dalla tradizione classica, in questo caso dal latino. “Sereticcio” deriva, infatti, da “serus”, che in latino significa tardivo, prodotto da tempo, vecchio, così come è il pane dopo qualche giorno. La sua etimologia, però, rende il termine adatto a definire anche delle persone o, persino, situazioni.

Una persona sereticcia, quindi, è qualcuno arido di sentimenti o dal carattere duro e poco elastico, oppure qualcuno con atteggiamenti poco attuali e stantii. Per quanto riguarda le situazioni, invece, l’esempio più comune è quello di un “matrimonio sereticcio”, cioè un’unione che va avanti per abitudine e che, ormai, non offre più passione e sorprese ai due malcapitati coniugi.

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‘O chianchiere: ecco perché in Napoletano si dice così

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carne macellaioNennì viene ccà, hê ‘a fà nu servizio a mammà. Vaje add’’o chianchiere e fatte dà cinche sacicce, c’’e ffaje signà ncoppo ‘o cunto. Fa’ ampressa e statte accuorto!

Quante volte le nostre mamme, le nostre nonne ci hanno chiamato per chiederci di andare chianchiere? E quante volte volte ci siamo chiesti perché sull’insegna della bottega ci fosse scritto macelleria e non chianca, o come mai la parola chianchiere fosse così diversa dall’italiano macellaio?

Per quanto riguarda la Lingua Italiana è molto semplice intuire da dove venga la parola “macelleria”, ossia dal Latino macellum. Il macellum, nel mondo dell’antica Roma, non era la semplice bottega dove venivano uccisi gli animali e vendute le loro carni ai fini dell’alimentazione, bensì proprio il mercato di carni e altri generi alimentari, in particolare carne e pesce o anche frutta e verdura provenienti da zone lontane. Un celebre esempio di macellum è quello di Pozzuoli, erroneamente indicato come Tempio di Serapide a causa del rinvenimento di una statua di quel dio idolatrato dagli antichi egizi. Il macellarius – da cui macellaio e le forme arcaica o dialettale macellaro – era dunque uno dei venditori che operavano del macellum.

Chianchiere macellaio

Chianchiere. Foto da http://ascm.altervista.org/

Per capire invece l’origine del napoletano chianchiere dobbiamo guardare al modo in cui quest’ultimo lavorava: i pezzi di carne che costui tagliava venivano adagiati ed esposti su di un bancone di legno di lunghezza e larghezza variabili (vedi foto in bianco e nero), come avviene ancora oggi in poche macellerie, che in Latino si chiamava planca (asse, tavolo). A testimoniare tale uso esistono anche diversi quadri, tra cui la Bottega del macellaio di Joachim Beuckelaer conservato al Museo di Capodimonte.

Poiché le lingue parlate sono vive e si evolvono insieme alla società, planca si è trasformato con il tempo in chianca, che indica perciò l’oggetto sul quale era possibile visionare la merce che si aveva intenzione di acquistare e che contraddistingueva la bottega di colui che, a questo punto, bisognava chiamare chianchiere. Lo stesso processo lo possiamo constatare, per esempio, in chianella e pianella (pantofola), chiano e piano, chianto e pianto, chiazza e piazza.

Fonti:
– IL, Vocabolario della Lingua Latina (terza edizione), Loescher Editore.

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Chi erano i monzù? Rivoluzionarono l’antica arte della cucina napoletana

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maria-antonietta

La tradizione culinaria napoletana, oggi riconosciuta in tutto il mondo come sinonimo di gusti e ricchezze inimitabili, è il risultato delle tantissime culture che si sono susseguite nei secoli ed i “monzù” sono stati l’apice di questa evoluzione. Il “Liber de Coquina”, uno dei più importanti ricettari medievali che sono arrivati fino a noi, testimonia che, già nel XIII secolo, Napoli aveva già recepito la ricercata cucina del mondo arabo, con l’utilizzo di spezie ed accostamenti inimmaginabili nell’Europa del tempo.

Così, ingredienti poveri riuscivano ad unirsi in sapori forti e genuini creando molte delle pietanze che gustiamo ancora oggi. Tuttavia, la vera rivoluzione culinaria napoletana arrivò sotto il regno dei Borbone e la conseguente influenza della raffinatissima Francia. Abbiamo parlato spesso del complicato rapporto matrimoniale fra Ferdinando IV di Borbone, il “Re Lazzarone”, con l’altezzosa Maria Carolina d’Austria. Lui cresciuto come uno scugnizzo fra i vicoli di Napoli, predisposto più alla caccia ed allo sport che ai lustri nobiliari ed incline a scherzi e giochi poco consoni ad un sovrano; lei, fiera esponente della casata asburgica ed abituata a lussi ed onori di ogni genere.

Nonostante l’abissale differenza, i due sovrani trovarono un giusto compromesso coniugale: Ferdinando continuava a comportarsi da lazzarone, mentre Carolina cercava inutilmente di inculcargli la sua classe. C’era una cosa, però, che la regina non riusciva a tollerare: la cucina napoletana del tempo. Quei sapori tanto marcati e schietti la disgustavano al punto da chiedere aiuto alla sorella Maria Antonietta, Regina di Francia fino alla Rivoluzione, nota buongustaia, altezzosa quanto lei e talmente ben voluta dal popolo da essere ghigliottinata.

Per salvare il palato della sorella, Antonietta inviò alla corte di Napoli alcuni fra i migliori cuochi francesi per educare i colleghi nostrani ai gusti più in voga del tempo. La cucina napoletana, però, era troppo particolare per essere assorbita da quella d’oltralpe, anzi, avvenne l’esatto opposto: la nuova generazione di chef partenopei creò una cucina completamente nuova, che arricchiva quella tradizionale con creme e preparazioni tipiche francesi. I nuovi artisti della tavola venivano appellati col titolo di Monsieur, “signore” in francese.

Come spesso è accaduto, il termine è stato alterato fino ad arrivare ad una forma più facilmente pronunciabile nelle nostre terre: così, i monsieur divennero in tutto il Regno di Napoli, i “monsù”, poi “monzù”. Una etimologia confermata anche dall’Enciclopedia Gastronomica Italiana, che definisce in questo modo il termine: “traduzione dialettale napoletana e siciliana della parola francese monsieur. Monzù erano chiamati nei secoli XVIII e XIX i capocuochi delle case aristocratiche in Campania e in Sicilia perché, in epoca di influenza gastronomica francese, niente più di un titolo francesizzante pareva premiare l’eccellenza, anche se essi di solito francesi non erano.”

Alle dipendenze delle più importanti famiglie nobiliari del tempo, punte di diamante indiscusse in ogni corte, i monzù arrivarono a formare vere e proprie casate nelle quali la sublime arte culinaria veniva tramandata di padre in figlio e perfezionata dopo ogni generazione. Secondo quanto riportato da ristorazioneruggi.com, fu proprio grazie ad uno di loro, tale Gennaro Spadaccino, che oggi abbiamo la forchetta con quattro punte.

Anche questa invenzione venne ordita da Maria Carolina: i maccheroni erano uno dei piatti più amati dal popolo, che per raccoglierli bene usava mangiarli con le mani, usanza che ripugnava la regina. Fu sul punto di bandirli completamente dal regno, ma non aveva fatto i conti col marito, amante sfegatato della pasta ed anche lui estimatore del gustarla con le mani. Così, per salvare matrimonio e regno, Carolina ordinò al suo monzù più fidato di creare un sistema per sostituire l’uso delle mani.

I monzù hanno rivoluzionato più di una volta l’alta cucina di Napoli e del mondo intero, ma, ormai, sono figure professionali estinte. Uno dei pochi grandi esponenti di questa nobile arte è Gerardo Modugno, l’ultimo vero monzù napoletano, che gestisce una prestigiosa accademia volta a tramandare alle future generazioni l’antica cucina aristocratica che deliziò il Regno delle Due Sicilie.

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