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Channel: Proverbi napoletani Archives - Vesuvio Live
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“E’ fernuta ‘a zezzenella”: da dove ha origine questo detto?

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zezzenella

Non importa che lavoro faccia, quanto stia bene economicamente o che sia la persona più felice al mondo, chiunque, a Napoli, si è sentito dire o ha pensato almeno una volta nella vita che “E’ fernuta ‘a zezzenella”. Ebbene si, perchè qualunque cosa bella, qualunque piacere o beneficio non dura in eterno e quindi, alla lunga, tutte le “zezzenelle” si esauriscono. Ma cosa sono realmente? Da dove ha origine uno dei detti più comuni della lingua napoletana?

Non è difficile capire che “zezzenella” è diminutivo di “zizza” ed è quindi una “piccola mammella”. Il detto trae origine dall’atto della mungitura delle mucche. Non è sempre un lavoro semplice: può capitare che la mammella si blocchi o, semplicemente, che il latte si esaurisca definitivamente, tal caso si definisce “finita”, “esaurita”. Un’altra interpretazione potrebbe essere data con l’immagine dello svezzamento dei neonati: il latte materno è esaurito e dovranno iniziare a mangiare come tutti. Una simile metafora viene applicata, nella nostra lingua, alle situazioni più disparate.

Dopo una lunga vacanza o un lungo periodo festivo, come può essere quello natalizio, tornando a lavorare si potrebbe pensare “E’ fernuta ‘a zezzenella”; come potrebbe sentirselo dire un ragazzo diventato abbastanza autonomo da poter smettere di vivere sulle spalle dei genitori; o, più semplicemente, quando una qualunque situazione comoda e vantaggiosa volge al termine.

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Si’ nu sarchiapone! Cosa significa e perché si dice così? Ecco la risposta

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sarchiapone significato

Qualsiasi napoletano avrà sentito qualcuno, almeno una volta nella vita, appellare con il termine “Sarchiapone” chi si ritiene essere goffo e credulone. Tuttavia, non tutti conoscono le reali origini di tale espressione che sembrerebbero risalire addirittura al 1600 circa.

Il termine “Sarchiapone” viene oggi utilizzato per indicare non soltanto chi é goffo, ma anche chi si dimostra particolarmente sciocco e, in riferimento alle caratteristiche fisiche, una persona parecchio corpulenta. La sua etimologia deriverebbe infatti dal greco sarx+poiòs che, traducendosi letteralmente come “fatto di carne”, si rivelerebbe particolarmente indicato nell’appellare qualcuno di sola carne senza cervello.

Il termine, nato come aggettivo qualificativo, ha finito col tempo per trasformarsi in un nome proprio, sebbene limitato al solo contesto teatrale. Anche in questo caso va a denotare personaggi caratterizzati da una fisicità abbondante e da una limitata acutezza mentale.

Sebbene il termine compaia per la prima volta nel “Cunto de li cunti” di Giambattista Basile, datato intorno al 1634-36, esso diventa famoso solo nel 1958 grazie a una celebre scenetta di Walter Chiari e Carlo Campanini. I due si trovano nell’affollata carrozza di un treno e Companini inizia ad armeggiare con una gabbietta coperta da un telo, sostenendo che all’interno vi sia un sarchiapone americano. Walter Chiari, fingendo di sapere cosa fosse, inizia una conversazione con Campanini in cui elenca dettagliate caratteristiche dell’animale sperando di beccarne qualcuna a caso. Nel corso della conversazione, tuttavia, tra una smentita e una nuova ipotesi, le caratteristiche dell’animale si fanno sempre più spaventose al punto tale da terrorizzare tutti i passeggeri e indurli a cambiare carrozza. Quando, rimasti ormai soli, Chiari chiede a Campanini di poter finalmente vedere l’animale, questi gli confessa che si tratta di un animale inventato che usa per poter sfollare lo scompartimento e viaggiare in piena tranquillità.

Proprio per questo motivo il termine “sarchiapone” divenne per qualche tempo, nell’uso comune, anche un modo per indicare qualcuno che furbescamente tenta di parlare con assoluta convinzione di cose che in realtà non conosce affatto.

Se Walter Chiari ha reso celebre il termine sarchiapone con la scenetta nel vagone di un treno, non è da meno Antonio De Curtis che nella raccolta di poesie ‘A Livella ne ha inserita una intitolata proprio “Sarchiapone e Ludovico“. Essa narra la triste storia di Sarchiapone, un cavallo purosangue che, ormai vecchio e non più utilizzabile come cavallo da calesse, viene svenduto per poche monete a un carrettiere. Nella stalla del suo nuovo padrone Sarchiapone incontra Ludovico, un asinello altrettanto vecchio che gli apre gli occhi sulla malvagità umana distruggendo le vane speranze di Sarchiapone di poter avere una seconda chance. Il cavallo, un giorno, ormai conscio che il suo passato di nobile animale non tornerà più si getta in un burrone per porre fine alle sue sofferenze.

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“Quanno ‘a gallina scacatea, è signo ca ha fatto ll’uovo”: ecco il significato

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proverbio quanno 'a gallina scacateaOgni Regione ha i propri dialetti che variano di luogo in luogo. A seconda della comunità si ascolteranno cadenze differenti, parole derivanti da latinismi, popolazioni confinanti e dalle dominazioni spagnole, francesi, austriache e non solo. Differenze significative si possono riscontrare già tra le lingue parlate all’interno della Campania, tra la Lingua Napoletana e il dialetto della provincia di Avellino. In molte parole irpine, infatti, le vocali finali tendono a essere pronunciate, non vi è differenza tra gli articoli maschili e quelli femminili e una delle differenze principali è nell’uso della “o” al posto della “u” partenopea. Se i dialetti saranno differenti, differiranno ovviamente anche i proverbi. O almeno le parole contenute in essi. In particolare vi sono numerosi detti che provengono dalla zona di Bagnoli Irpino, comune che fa parte della storica Regione del Sannio. Il centro storico, risalente al XVI secolo, è chiamato Giudeca. Il borgo medievale è di origine ebraica poiché furono ebrei i primi coloni che crearono un insediamento consistente in questo luogo. Ha caratteristiche architettoniche spagnole e sorge intorno al vecchio castello Longobardo del VII secolo, del quale si possono ammirare ancora i ruderi.

 

Bagnoli Irpino

Bagnoli Irpino

È proprio tra questi resti storici che, nei tempi passati, nacque il detto “quanno ‘a gallina scacatea, è signo ca ha fatto ll’uovo”, letteralmente “quando la gallina starnazza vuol dire che ha fatto l’uovo”. La forma arcaica recita invece: “Quannu la addìna scacatéa è ffattu l’uovu”. Il termine “scacatéa” indica proprio il verso che le galline fanno dopo che hanno scodellato, “cacàtu” in dialetto irpino, l’uovo. Ma che cosa vuol dire questo proverbio? Si usa generalmente per indicare che chi si scusa reiteratamente, o in maniera sottomessa, lo fa poiché è colpevole e ha compiuto un’azione che non doveva commettere. Solitamente questa frase è utilizzata quando  si concretizza una situazione spiacevole come conseguenza dell’atto commesso proprio da colui che è il primo a segnalarla creando trambusto tra i conoscenti. Così come la gallina schiamazza appena fa l’uovo per segnalare il suo sforzo, colui che compie un atto sbagliato richiama l’attenzione su di sé. Unica differenza: dalla gallina ci si aspetta quella azione, attesa e considerata positiva, mentre dalla persona che dà l’allarme, per così dire, non ci si aspetterebbe l’azione negativa che ha commesso.

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Me pare nu sciarabballo: non ditelo a una signora, per carità! Ecco cosa significa

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sciarabballoDire a una donna, specialmente se si tratta di una signora, che sembra uno sciarabballo è tutt’altro che lusinghiero, anzi, ci permettiamo di sconsigliarvelo vivamente: rischiereste una “solenne bastonatura”, per usare le parole del grande Totò. La città di Napoli, dove attraverso i secoli sono passate genti provenienti da tutto il mondo, conserva i segni di tali passaggi nelle tradizioni, nell’architettura, nella toponomastica e, sopra ogni cosa, nella propria lingua, nei termini che più o meno comunemente sono utilizzati dai partenopei.

‘O sciarabballo è un termine di origine francese proveniente da char a bancs, ossia un carro a panche molto modesto trainato per lo più da asini, qualche volta da cavalli: l’espressione transalpina si è trasformata “nella bocca” dei napoletani, dando vita a un sostantivo nuovo dove, probabilmente, è stata determinate l’influenza del verbo abballà, ossia “ballare”.

‘O sciarabballo era infatti un mezzo di trasporto molto umile, spesso trasandato e sbilenco, usato dalla povera gente dell’entroterra napoletano per recarsi in città sia per commercio, sia per sbrigare propri affari. Data la sua struttura non solida il viaggio era poco confortevole, per cui ‘o sciarabballo dondolava ed oscillava, ovvero abballava, termine usato in Napoletano anche per indicare che un oggetto non è stabile: di un tavolo non ben saldo a terra, per esempio, si dice che abballa. Questo tipo di carro, inoltre, era chiamato da coloro che abitavano in città ‘a cafuniera, perché trasportava appunto i cafoni, i contadini della provincia.

Il motivo per cui, dunque, non bisogna mai dire a una donna che sembra uno sciarabballo è che in questo modo le stiamo dicendo che è sgangherata, deformata, estremamente brutta e grassa, il cui abbondante adipe si muove, trema, abballa quando cammina o si muove.

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“Pure ‘e pullece tenene ‘a tosse”: un’offesa o proverbio educativo?

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pullece

I detti della lingua napoletana, specialmente quando devono essere dei modi “delicati” di schernire qualcuno, si basano, spesso, su metafore e allegorie: un modo come un altro per nascondere quella che potrebbe essere una grave offesa con qualcosa di divertente che non può far rimanere male nessuno. Fra questi “sfottò diplomatici” c’è il famosissimo detto “Pure ‘e pullece tenene ‘a tosse”, che tradotto significa “Anche le pulci tossiscono” o, in maniera più coerente col significato reale, “Anche le pulci si sentono tossire”.

L’offesa in questione varia di “gravità” a seconda della persona a cui è rivolta. Generalmente viene rivolta a bambini o ragazzini che non resistono ad intervenire e dire la loro in discorsi fra adulti o che, comunque, non siano di loro competenza. Le pulci sono talmente piccole che nessuno potrebbe sentire la loro voce, così le parole dei più giovani, tanto inesperti della vita e delle discussioni, suonerebbero fuori luogo come l’improvviso colpo di tosse di una pulce.

Nei confronti dei più piccoli, quindi, è un modo educato e scherzoso di dire “lascia parlare i grandi”, ma la cosa è ben diversa se riferita ad un adulto. Paragonare le idee di un uomo adulto alla tosse di una pulce equivale a dirgli che non vale niente o che, su quell’argomento, è talmente inesperto ed incapace da non poter parlare. Insomma in questi casi da sfottò diventa una vera e propria offesa, detta con disprezzo e superiorità. Vero è, però, che tutti, stando al detto, siamo pulci per qualcuno: ci sarà sempre qualcuno più preparato, più esperto o semplicemente più maturo. Quindi, in ogni caso, prima di tossire dovremmo tutti pensare bene a quello che si dice ed a chi ci rivolgiamo per non rischiare di essere paragonati a pulci rumorose.

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‘O ricuttaro. In Napoletano si dice che il protettore “fa le ricotte”: ecco perché

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'o ricuttaro fare la ricotta

In quella straordinaria lingua che è il Napoletano esistono delle parole e delle espressioni che hanno una storia così particolare di cui, molto spesso, è quasi impossibile risalire alle origini, se non facendo un bel passo indietro nella storia, certe volte millenario, come nel caso del papiello o del Lido MappatellaNel caso del ricuttaro, invece, bisogna tornare nel passato di duecento anni, ma veniamo prima al suo significato.

‘O ricuttaro è, in modo molto semplice e diretto, colui che si procura di che vivere attraverso lo sfruttamento della prostituzione, ossia il lenocinio: sinonimi del termine sono “protettore” e il volgarissimo “pappone”, il quale riportiamo soltanto poiché avvertiamo l’esigenza di essere quanto più chiari possibile. Dalla parola ricuttaro è derivata, successivamente, l’espressione fà ‘e ricotte, fare le ricotte, anche se questo tipo di formaggio non ha proprio nulla a che vedere con la prostituzione.

Agli inizi dell’Ottocento, infatti, i camorristi (che non si devono intendere come li intendiamo oggi, poiché la camorra ha avuto un peculiare sviluppo lungo l’ultimo secolo e mezzo) usavano fare delle collette imponendo delle “donazioni” al popolo, di fatto una tassa, per finanziare le spese legali degli affiliati finiti in galera, in primis la parcella per l’avvocato: ciò che fanno ancora oggi, per intenderci. Tale colletta era chiamata coveta oppure raccoveta e il suo equivalente recoveta, i quali con gli anni hanno subìto una corruzione, una trasformazione, in ricotta per la somiglianza dei suoni. Ancora oggi, se un napoletano vi chiede se avete arrecuoveto, vi sta domandando se avete già preso ‘a mesata – lo stipendio – o la pensione.

I camorristi che facevano la raccoveta sovente erano dei protettori, e da “ricotta” il passo è breve per giungere a ricuttaro, sostantivo carico di intento dispregiativo perché designa persone che vivono alle spalle degli altri, come dei parassiti i quali, in effetti, sono. Oggi, per estensione, ricuttaro è chiunque non svolga nessun lavoro (o lavoro considerato davvero tale) e campa benissimo sfruttando gli altri: ecco perché il popolo la usa frequentemente nei confronti dei politici, non visti di buon occhio specialmente al giorno d’oggi.

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“Va truvanno sce’ sce'”. Cosa significa e quando si usa?

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Va truanne sce' sce'

“Va truanne sce’ sce'” è un vecchio modo di dire nato ai tempi dell’occupazione francese a Napoli. Il termine “sce’ sce'” è infatti una sorta di “trasformazione” del verbo francese “chercher”, che significa cercare. Si dice che all’epoca, un soldato transalpino aveva chiesto informazioni a qualche popolano, iniziando la frase con “Je cherche” (io cerco) o utilizzando il verbo all’infinito. Questo venne mutato in sce’ sce’ proprio dal popolano, il quale, fraintendendo le parole del soldato, credeva che quest’ultimo stesse cercando qualcuno o qualcosa dal nome Sce’ sce’.

Con il tempo “va truanne sce’ sce'”, è stato utilizzato per indicare una persona che cerca pretesti o scuse per ogni cosa, per evitare di fare al meglio il suo lavoro, che cerca rogne e a volte litigi. Il detto è da non confondere con “fa’ uno to to”, utilizzata per una persona troppo brontolona. E voi, lo avete mai utilizzato questo modo di dire?

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‘A guallera: ecco i motivi e occasioni in cui a Napoli si usa questa parola

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significato di guallera napoletanoLa guallera è il sostantivo napoletano che sta ad indicare l’ernia inguino-scrotale giunta nella sua fase più avanzata e grave, quando provoca il rigonfiamento abnorme dello scroto, ossia della sacca che contiene i testicoli, provocando vari fastidi alla persona che ne fosse affetta, in certi casi addirittura invalidante. Il termine guallera spesso viene erroneamente scritto “uallera”, o reso con un “wallera” che fa accapponare la pelle per quanto è orrendo e, consentitemelo, ignorante: la lettera “g” in Napoletano è infatti spesso muta o semimuta, fattore che porta le persone a scrivere con errori di ortografia, tra cui l’utilizzo di lettere – come la “w” – che non appartengono nemmeno al nostro alfabeto.

Il termine guallera tuttavia ha assunto, in Lingua Napoletana, differenti significati ulteriori a quelli che competono il campo della Medicina, tutti intesi in senso figurato. Ne consegue che il napoletano, laddove usasse tale termine, nella grande maggioranza delle volte non intende far riferimento alla patologia cui abbiamo sinteticamente accennato sopra, ma a uno dei vari concetti che ora passiamo a esplicare:

– abbuffà ‘a guallera (o abbuffarse ‘a guallera):  questa espressione vuol dire annoiare, tediare, dare fastidio, recare scocciatura, ed è una maniera, molto colorita e volgare, per intendere che il soggetto o la situazione in questione è giunta a un grado talmente elevato ed insostenibile di insopportabilità da “abbuffare”, ossia gonfiare, la sacca scrotale con le conseguenze già spiegate all’inizio. L’espressione può essere usata in modo attivo (esempi: M’hê abbuffato ‘a guallera, ossia “Mi hai scocciato”, o ancora Tonino c’ha abbuffato ‘a guallera, ossia “Tonino ci ha scocciati”) e riflessivo (esempio: m’aggio abbuffatto ‘a guallera, ossia “Mi sono scocciato”). Una variante è (M’hê fatto) ‘a guallera â pizzaiola, l’ernia alla pizzaiola, che richiama la cottura e l’aumentata pesantezza della stessa;

– ‘a guallera cu ‘e filosce: letteralmente la guallera arricchita con frittate di uova, che indica una persona estremamente lenta e svogliata nello svolgere un’azione, ma anche di poco polso e vile. In tal caso, dunque, la guallera è simbolicamente appesantita da una pesante e flaccida frittata che aggrava la già pesante condizione di essere guallaruso. 

essere na guallera: per i Napoletani vi sono persone le quali possono proprio essere identificate con delle guallere, quando costoro sono di ‘sì gran fastidio da ricordare, appunto, il pesante impiccio che comporta l’avere un’ernia scrotale, che impedisce il normale svolgersi delle azioni. Si tratta di un’espressione molto utilizzata, ad esempio, dagli automobilisti che si trovino ad avere dinanzi a sé un’autovettura lenta con strada libera, facendo allungare inutilmente i tempi di percorrenza. In particolar modo, essi usano dire:

– Ih che guallera!: è un’esclamazione che in Lingua Italiana possiamo rendere con “Che scocciatura!”, usata ogni volta che si vuole esprimere frustrazione dovuta a noia, la quale può scaturire dalle situazioni più diverse ed eterogenee. Può riferirsi sia a una circostanza che a una persona;

– abbuttà ‘a guallera: non capita spesso di sentire così, anzi, al contrario, è davvero raro che qualcuno pronunci questa espressione che vuol dire “provare invidia”. Abbuttà significa, letteralmente, colmare, riempire, gonfiare, perciò anche in questo caso constatiamo che il senso figurato del processo di formazione dell’ernia è rispettato. Il “provare invidia” deriva, a quanto sembra, dal fatto che una persona che assista al successo, o a un accadimento positivo occorso a un altro individuo, provi così tanta invidia da farsi scendere la guallera. Ogni tanto capita di sentire, infatti, da parte di chi è destinatario dell’invidia di qualcuno, le formule Si ‘a mmiria fosse guallera ognuno s”a schiattasse, oppure Si ‘a mmiria fosse guallera ognuno ‘a trascinasse, o ancora Si ‘a mmiria fosse guallera tutte fosseme guallaruse (dove mmiria indica “invidia”). In tutti questi casi si ipotizza il caso in cui l’invidia si manifestasse nelle sembianze di un’ernia scrotale, la quale sarebbe di dimensioni estremamente grosse, proporzionali al sentimento provato.

Ora che siete giunti al termine dell’articolo, potete dire di conoscere qualcosa in più sulla guallera: sperando di non avervela abbuffata con questa non breve lettura, né di averla cucinata per voi alla pizzaiola.

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“Mantené ‘o carro p’‘a scesa”: ecco che significa questa espressione napoletana

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Mantené 'o carro p' 'a scesa

“Mantené ‘o carro p’ ‘a scesa” è un modo di dire che tutti, almeno una volta, hanno sentito o pronunciato. In realtà, non esiste una particolare origine per questo detto, che veniva utilizzato per indicare la fatica che bisognava fare per mantenere un carro su una discesa, stando attenti ai grossi sassi che si potevano incrociare lungo il percorso, per evitare di distruggere tutto o che il carro scivolasse via senza controllo.

Una metafora, un modo di dire che suggerisce di non perdere la calma in caso di difficoltà. Di continuare ad essere cauto, prudente e di arginare il più possibile eventuali problemi. “Mantené ‘o carro p’a ‘a scesa”, che letteralmente significa “Trattenere il carro lungo la discesa”, viene solitamente utilizzato per indicare anche un atteggiamento diplomatico e la bravura nel non lasciare che le cose precipitino.

Mantenere un carretto su di una discesa con tutte le proprie forze è sicuramente faticoso, così come lo è a volte resistere dinanzi ai problemi della vita ed affrontarli con il giusto livello di diplomazia.

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“Se so’ rotte ‘e giarretelle”: perché si dice così e da dove deriva?

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cocci
E’ consueto a Napoli usare l’ espressione dialettica “se so’ rotte ‘e giarretelle”, oppure “Rumpimmo ‘e giarretelle”. Questa locuzione, popolarmente conosciuta, indica la rottura di un’amicizia, di un legame intimo e affettivo. Ma qual è la metafora che lega la rottura relazionale alle giarettelle?

Letteralmente Se so’ rotte ‘e giarretelle significa “si sono infrante le chicchere”, ossia si sono rotte le piccole brocche, quelle normalmente adoperate, un tempo, nelle case napoletane. Giarretella è un sostantivo femminile singolare che deriva da Giarra (con etimo dall’arabo ğarra, passato nello spagnolo e provenzale jarra e nel francese jarre), la quale, solitamente di terracotta o vetro, veniva usata per la conservazione del vino e di altre bevande.

Pertanto, la giarretella indica una piccola brocca, giara o chicchera, che alla stregua della prima era fatta con materiali poveri (vetro, terracotta e simili), ma che, tuttavia, veniva adoperata per altri fini: era solito, infatti, servire in questi recipienti bevande agli amici o ai familiari. E non solo bevande, anche alcuni dolci, come il gelato, venivano messi nelle giarretelle. Con gli amici o i parenti prossimi non vi era la necessità di presentare il servizio buono, come quello di cristallo o l’argenteria, ammesso che si possedessero. Oggetti umili potevano tranquillamente essere adoperati grazie al legame intimo e confidenziale che, nel tempo, si era instaurato.

Da qui l’usanza di usare metaforicamente la rottura della giarretella per indicare la rottura dell’amicizia. L’oggetto in questione è divenuto simbolo del legame. Da sempre, in effetti, la creatività popolare ha elaborato metafore e arrangiamenti linguistici che nascondono reconditi significati, rimandando a cultura, tradizione e modi di fare, peculiari della nostra storia.

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“Tene ‘e rrecchie ‘e pulicano”. Da dove deriva questo detto?

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pellicano

Ci sono persone estremamente curiose, anche se non lo danno a vedere: sono le classiche persone che, durante una discussione, sembrano pensare a tutt’altro o, addirittura, essere in un’altra stanza. Eppure, se interpellate, questa particolare categoria di ascoltatori ripete per filo e per segno quanto detto dagli altri a riprova del fatto di aver ascoltato tutto senza essere notati. Nella lingua napoletana, questi curiosi vengono apostrofati con il detto “tene ‘e rrecchie ‘e pulicano”. La traduzione più immediata e naturale di questa frase sarebbe: “ha le orecchie come un pellicano”.

Perchè, quindi, viene tirato in ballo l’udito di questo uccello marino? In realtà molte tesi remano contro la prima versione di questo detto. Innanzitutto il pellicano è un uccello marino dal particolare becco a forma di “borsa” che non è originario dei nostri mari: quindi, per prima cosa viene da chiedersi perchè i napoletani avrebbero dovuto usare a modello un animale che non conoscevano. E’ vero, però, che siamo sempre stati un popolo di marinai e che, quindi, anche in tempi molto remoti, il pellicano potrebbe essere stato un uccello noto anche in una città lontana come Napoli. La seconda tesi è riferita all’udito dell’animale: come tutti gli uccelli di mare, infatti, il pellicano ha la vista molto sviluppata, ma non l’udito. Certo, come tutti gli uccelli, riesce a sentire i suoi pulcini pigolare anche a centinaia di metri di distanza, ma non è una caratteristica peculiare al punto da far nascere un detto. Il significato di “pulicano” va cercato altrove.

Lo studioso Raffaele Bracale offre una sua analisi approfondita e la sua conclusione, a nostro avviso, è la più appropriata. Il termine “pulicano” sarebbe una derivazione dialettale del termine latino “publicanum” (pubblicano), ovvero i temutissimi esattori delle tasse al tempo dell’Impero Romano. Questa odiosa categoria di persone aveva come unico scopo quello di scoprire beni e ricchezze sottratte al demanio pubblico e pignorarle: una versione primordiale della Guardia di Finanza. Per carpire informazioni, spesso, i pubblicani dovevano origliare conversazioni e spiare cittadini romani con lo stesso atteggiamento disinteressato che viene contestato a un napoletano con le “rrecchie ‘e pulicano”.

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“Ê viécchie lle próre ‘o cupierchio”: da dove deriva questo detto?

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Totò Peppino e la Malafemmena

E’ superfluo affermare che gli uomini siano costantemente soggetti a determinate pulsioni e voglie in presenza di una donna desiderata: è un istinto naturale che ci accompagna dall’avvento dell’adolescenza fino alla fine dei nostri giorni. Quando determinati pensieri arrivano nell’età giovanile il problema non sussiste, eccetto in casi patologici: l’attrazione nei confronti delle donne è la base di fidanzamenti, matrimoni e famiglie. Cosa succede, però, quando non si è più in un’età in cui si è avvenenti e prestanti? Un periodo della vita in cui è quasi impossibile soddisfare determinate voglie?

Difficilmente un anziano riesce a dar sfogo alle pulsioni sessuali e, anche nel caso in cui avesse una compagna, l’organismo non è più capace di adempiere a certe esigenze. E’ per questo che, in molti uomini avanti con gli anni, la voglia insoddisfatta si trasforma in frustrazione e questa, a sua volta, diventa un chiodo fisso. A Napoli viene usata l’espressione “vecchio rattuso” per classificare quegli uomini di una certa età che, ad esempio, scrutano in maniera poco carino donne decisamente più giovani o che, addirittura, si lasciano andare in commenti maliziosi e, spesso, offensivi.

La lingua napoletana, si sa, tende a riassumere con poche e significative parole concetti complessi e, ovviamente, anche per questa infelice situazione sessuale degli anziani esiste un detto: “Ê viécchie lle próre ‘o cupierchio”. La traduzione più comune sarebbe “Ai vecchi prude il sedere”, ma potrebbe non essere del tutto così. Innanzitutto cerchiamo di capire cosa significa davvero. Questo prurito intimo dovrebbe rappresentare la pulsione sessuale insoddisfatta, la voglia costante: il prurito spesso viene usato, a Napoli, per definire un “chiodo fisso”, un pensiero costante ed invadente. Una versione più poetica potrebbe riportare agli antichi Satiri, figure mitologiche nella cultura greca. I Satiri erano esseri col busto e testa di uomini e gambe caprine e spesso erano soliti inseguire ninfe e fanciulle nei boschi per soddisfare bisogni sessuali. Cosa c’entrano queste creature con i nostri vecchietti, oltre che per le voglie? I Satiri disponevano anche di una piccola coda e, quindi, il “prurito al sedere” sarebbe, metaforicamente, una coda caprina che compare ai “vecchi rattusi”.

Tuttavia, abbiamo dato per scontato che il termine “cupierchio” indichi il sedere: nella nostra lingua viene spesso usato con questo significato, ma, in questo caso, potrebbe indicare un’altra zona intima. Precisamente si tratterebbe della parte finale del membro maschile, il glande (volgarmente detto in napoletano “capocchia”). Effettivamente, anatomicamente fa da coperchio al pene e, non solo a Napoli, ma in tutta Italia, il prurito in quella particolare zona è una metafora linguistica che sta ad indicare una notevole voglia sessuale. Certo, il significato, anche in questo caso, rimane invariato e se il “cupierchio pròre” c’è poco da fare.

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La donna nei proverbi napoletani. I più famosi e divertenti

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proverbi

La donna è da sempre la maggiore protagonista delle poesie e canzoni napoletane. Viene decantata come creatura angelica da amare e adorare, ad esempio nella canzone ‘O surdato innammurato, ma anche come demone da evitare a tutti i costi come in Malafemmena.

Anche nei proverbi napoletani emerge questo contrasto: donna bella e dea del focolare domestico ma dalla quale bisogna mettersi in guardia dai pericoli e dalle tentazioni che essa può portare. Di proverbi napoletani che hanno come soggetto le donne ce ne sono migliaia, ma noi qui vogliamo riproporre quelli più famosi e divertenti.

Nu buono marito fa ‘na bona mugliera” (Un buon marito fa buona la moglie):
Il marito e la moglie sono metafore, il senso da cogliere è che dove c’è un buon capo, sia come dirigente che come esempio, non ci puo’ essere altro che dei buoni dipendenti o buoni discepoli.

‘A monaca de Camaldoli: muscio nun le piaceva e tuosto le faceva male(Alla suora dei Camaldoli (zona di Napoli), morbido non gli piaceva e duro gli faceva male):
Colorito proverbio napoletano che è usato per indicare qualcuno di davvero incontentabile, non solo per una donna, ma anche magari per un datore di lavoro.

‘Na femmena e ‘na papera arrevutaino ‘na città(Una donna ed una papera rivoltarono la città):
Un’oca che starnazza e una donna che chiacchiera e litiga portano allo stesso modo uno scompiglio anorme. Un accostamento che è usato in molti detti popolari.

Chi ato nun ave, cu ‘a mugliera se còcca” (Chi altro non ha, con la moglie si corica):
Quando le occasioni scarseggiano, si ritorna alle cose di sempre, quelle che sai che ci sono sempre e che non ti deludono mai. Il proverbio si riferisce in generale e non solo al sesso.

Quanno ‘a moda dice ca è ora vide ‘a femmena cò culo ‘a fora(Quando la moda dice che è ora vedi le ragazze col sedere scoperto):
La moda comanda e il colorito proverbio spiega perfettamente la situazione: dove l’uso diventa di massa, tutto sembra diventare lecito.

A altare scarrupàto nun s’appicciano cannéle (Su un altare vecchio non si accendono candele):
Anche se il detto fa riferimento ad un alatre il vero significato di questo proverbio napoletano é: Alle donne ormai anziane non si fanno moine. Ossia non c’è bisogno di fare per forza complimenti alle donne di età avanzata.

‘A bella figliòla nun manca ‘nnammurato(Alla bella ragazza non manca l’innamorato):
Le belle donne hanno sempre un fidanzato. Il detto è inteso che dove c’è ricchezza, bellezza, convenienza, ci sono sempre persone che girano intorno, come le mosche sul miele.

‘A femmena è comme a campana: si nun ‘o tuculeja nun sona(La donna è come la campana: se non lo scuote non suona):
La donna è come la campana se non si muove il batacchio non suona. Si potrebbe carpire un chiaro significato sessuale, ma non è così. S’intende come sprono per la donna priva di iniziative ed intraprendenza. 

‘A femmena bbona, si tentata resta onesta, nun è stata bona tentata (La donna buona se tentata resta onesta non è stata ben tentata):
Se una bella donna viene tentata e rimane onesta, vuol dire che non è stata tentata abbastanza.

‘A femmena ciarliera è pesta nera” (La donna chiacchierona è da evitare come la peste).

‘A femmena cchiù se nega, e cchiù allumma l’appetito (La donna più si nega e più eccita).

‘A femmena è comm’ ‘o mellòne: ogne ciènte, una” (La donna è come l’anguria: su cento ne esce una buona).

“‘A femmena è comme ‘o tiempo ‘e marzo: mò t’alliscia e mò te lascia (La donna è come il mese di marzo, mentre ti accarezza, ti tradisce).

‘A femmena ne sape una cchiù d’ ‘o riavulo(La donna ne sa una più del diavolo).

Puòzze avè a sciòrta d’ ‘a brutta(La donna brutta trova prima il marito): più che un detto è un’imprecazione.

Quanno ll’ossa se fanno pesante, pure ‘e zzoccole addivèntano sante(Con l’avanzare dell’età anche le “donnine allegre” diventano sante).

Tutt’ ‘e peccate murtale sò ffemmene” (Tutti i peccati mortali sono femmine)
Avarizia, accìdia, gola, invidia, ira, lussuria e superbia, sono i sette peccati mortali, tutti al femminile.

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“Adda venì baffone”… ma perchè? Ecco chi è l’eroe dei napoletani

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baffone

Ci troviamo in un momento buio della nostra economia: la crisi continua a farsi sentire, il lavoro manca e la classe politica non rispecchia gli interessi del popolo. E’ in momenti come questi che i napoletani invocano un eroe, una figura ormai leggendaria entrata a pieno titolo nelle nostre espressioni, un paladino che arrivi per portare armonia e benessere in un mondo caotico… in poche parole “Adda venì baffone“. Lo sentiamo nominare dagli anziani che si lamentano per le pensioni, nelle minacce di chi si lamenta della sua situazione lavorativa, ma sappiamo davvero chi è questo baffone?

Iosif Stalin

Iosif Stalin

Il detto nacque quando Napoli venne occupata dalle truppe naziste, durante la Seconda Guerra Mondiale. In una situazione disperata, privi di qualunque forma di libertà, i napoletani si confortavano ripetendo agli altri ed a se stessi che “sarebbe arrivato baffone”, ovvero il dittatore sovietico Iosif Stalin, famoso per i suoi enormi baffi. Al tempo non si conosceva a pieno la realtà internazionale e la Russia veniva visto come un paese libero che, al pari dell’Inghilterra e degli USA, combatteva Hitler per portare libertà e pace: il popolo ignorava gli orrori del regime sovietico, ignorava che Stalin fosse entrato in guerra per controllare il territorio europeo ed ignorava le conseguenze che avrebbero portato a decenni di guerra fredda. Baffone doveva arrivare e salvare Napoli, punto.

L’illusione continuò anche dopo la guerra, l’URSS era considerata una realtà evoluta dove chiunque poteva trovare lavoro e gli operai comandavano. I napoletani continuarono a dire “adda venì baffone”, anelando ad uno stravolgimento positivo delle loro condizioni sociali ed economiche. Sono passati più di 60 anni dalla morte di Stalin, ma Napoli aspetta ancora l’avvento di un baffone: non è più un personaggio esistente, non è più una realtà, ma una speranza, un desiderio di rivalsa ed una minaccia costante al mondo sbagliato in cui viviamo. Prima o poi, insomma, “adda venì baffone”.

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Mannaggia ‘a marina! Un’imprecazione popolare: ma da dove deriva?

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marina
Quando si prova disappunto per qualche avvenimento oppure dispiacere circa qualcosa che è accaduto nella nostra vita o che comunque richiama il nostro interesse, è comune esclamare: “Mannaggia ‘a marina!”.

Ma da cosa deriva quest’esclamazione? Perché si rievoca la marina?

Iniziamo col sottolineare che la parola mannaggia è una contrazione del napoletano popolare della frase “male nn’aggia”, come dire: ne ricavi male, ne abbia sventura ed è usualmente adoperata per introdurre un’imprecazione generica, che in questo caso ha a che fare con la marina.

La locuzione Mannaggia ‘a marina nacque nel 1860, per bocca di Francesco II di Borbone, il quale imprecò contro la marina del Regno, quando seppe dello sbarco di Garibaldi e dei Mille sulle coste siciliane.

Se è vero da un lato, che la flotta del Regno delle Due Sicilie era il fiore all’occhiello dei Borbone e terza in europa dopo la marina inglese e quella spagnola, è anche vero che Francesco era latentemente adirato con gli uomini di mare del Regno, i quali, questa volta affermarono le colpe di pesante inerzia e inaccettabile slealtà.

Si racconta che a corte, il regnante urlò tale imprecazione appena udita la notizia dello sbarco, imprecando contro la propria marina, orgoglio del Regno e di suo padre Ferdinando II, il quale l’aveva allestita con gran cura.

In effetti la Marina, che già aveva dato segni di scarsa applicazione, fin dallo sbarco a Marsala, non riuscì, in seguito, ad intercettare nessuno dei 21 carichi in partenza da Genova e Livorno, che giungevano a supportare l’esercito garibaldino con armi e rinforzi.

Il resto della storia la conosciamo tutti, se non nello specifico e nei fatti reali, almeno in base alle nozioni dei libri di storia e dei loro racconti. Tuttavia, è sempre bene approfondire le conoscenze che riguardano la nostra terra e la nostra cultura, anziché nutrirci di quelle informazioni impacchettate ad hoc per la divulgazione di massa….Mannaggia ‘a marina!

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“Nun sfruculia’‘a mazzarella ‘e San Giuseppe”: ecco cosa significa davvero

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Bastone di San Giuseppe

San Giuseppe

Secondo la canonica iconografia cristiana e le testimonianza dei Vangeli, San Giuseppe è sempre descritto come un un uomo anziano estremamente buono e gentile, paziente più di ogni altro e sempre gentile ed umile con tutti: del resto serve una buona dose di responsabilità e pazienza per accettare di essere padre adottivo del Figlio di Dio e per essere sposato ad una donna consacrata al Signore. Inoltre, il santo viene spesso raffigurato con una lunga barba ed un bastone di legno, ad indicare la sua età avanzata rispetto alla consorte. In napoletano questo particolare ha generato un detto molto comune, “Nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe” (Non infastidire il bastone di San Giuseppe).

Solitamente, viene detto a chi fa di tutto per mettere alla prova la pazienza di un’altra persona, magari insistendo nel parlare di cose scomode o fastidiose per l’interlocutore. Insomma, significa arrivare ad un punto di fastidio che nemmeno il paziente San Giuseppe riuscirebbe a sopportare. Può essere anche inteso come un “andarsela a cercare”, quindi un persistere in un’attività dannosa o pericolosa: ad esempio, continuare a dare fastidio ad un cane in grado di mordere o provocare qualcuno particolarmente incline alla rabbia. Perchè, però, si parla proprio del bastone del santo?

Il detto, in realtà, nasce da un reale avvenimento storico raccontato dall’ormai scomparso studioso napoletano, Ulisse Porta Giurleo. L’erudito trovò un documento negli archivi storici in cui si raccontava che un importante cantante di Napoli, tale cavalier Nicolino Grimaldi, nel 1713, tornò da un viaggio a Londra con un’importantissima reliquia: il vero bastone di San Giuseppe. L’oggetto di culto fu messo in una cappella di casa Grimaldi e tutto il popolo napoletano accorse per venerare l’inestimabile tesoro, persino il Vicerè. Tuttavia, fra una devozione ed una preghiera, i fedeli strappavano di nascosto pezzi e schegge dalla reliquia per poter portarsi a casa un pezzo del santo. Il cavaliere si accorse di questa abitudine ed ordinò al suo maestro di casa, il veneziano Andrea Musaccio, di prendere provvedimenti. Così, a chiunque entrava, l’uomo ripeteva con un accento misto fra veneto e napoletano: “Non sfrocoleate la massarella di San Giuseppe”.

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Da “sciammeria” a “chiavata”: tutti i modi per dire “sesso” a Napoli

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trapanare

Dall’ape che va sul fiore al romantico “fare l’amore” l’uomo ha sempre trovato modi metaforici ed addolciti per nominare l’atto più naturale della sua esistenza: il sesso. In qualunque momento della nostra cultura linguistica la parola “sesso” è sempre stata un tabù, qualcosa da mascherare e camuffare: pagine e pagine di metafore sono state scritte per evitare di pronunciare una parola semplice, solo perchè considerata troppo diretta e volgare. Tuttavia, questo avviene nei libri o quando si è in presenza di estranei, ma nella vita privata la cosa è ben diversa.

Nessuno, parlando con amici di una donna che lo attira, direbbe mai “avrei proprio voglia di far l’amore con lei” e nessuno proporrebbe alla sua fidanzata “vorrei volare sul tuo fiorellino”. Da “scopare” a “fottere” la lingua italiana è piena di parole che definiscono il sesso in un modo sempre più volgare e diretto. La lingua napoletana non è da meno, anzi, i sinonimi di amplesso sono tanto numerosi quanto, spesso, estremamente materiali. “Chiavare”, ad esempio, pur essendo universale, particolarmente usato a Napoli. Il suo significato è, in italiano, “inchiodare” e non serve una gran conoscenza del mondo del bricolage per collegare un chiodo che entra in un muro all’atto sessuale.

Uno dei sinonimi più comuni in napoletano è “pella” o “pelle”, usato ancora molto dai giovani napoletani. Deriva, appunto, dalla pelle ed indica un rapporto sessuale senza anti-concezionali, che anche in italiano viene definito volgarmente “a pelle”, proprio perchè il pene è a contatto diretto con il corpo femminile. Un’altra accezione di “pella” può essere anche quella di un rapporto sessuale senza amore, privo di sentimenti e basato solo sul contatto fisico della pelle. Inoltre, “farsi ‘na pella” per un uomo potrebbe indicare anche una semplice masturbazione.

Altro termine molto comune è “menata” ed è, anche qui, molto facile capirne l’origine. In napoletano “menare” qualcosa o qualcuno significa spingere o spostare. Anche in italiano “spingere” viene usato come sinonimo di “far sesso” e, comunque, rende l’idea di un rapporto non particolarmente delicato. Stesso discorso vale per “squassare” che sia in napoletano che in italiano significa “scuotere con violenza”. Meno facile da capire è perchè il termine “chionzo”, nella nostra lingua, significhi “rapporto orale”. Deriva dal longobardo “klunz” (rozzo o volgare) ed in tutti i dialetti italiani viene attribuito ad una persona tozza di aspetto o stupida. Non si spiega, quindi, perchè in napoletano abbia questo particolare significato.

Particolare è anche “basulella” che, generalmente, implica un rapporto veloce e clandestino. Potrebbe derivare dal fatto che, spesso, queste “sveltine” vengano consumate in strada, magari in piedi: “basulella” significa, infatti, basolo di basalto e, quindi, la superficie sulla quale si svolgono simili amplessi. Simile a “chiavata” è “chiantella”, che in napoletano significa “toppa”. Se una toppa serve, generalmente, a coprire un buco è piuttosto facile capire a quale buco e a quale toppa ci riferiamo in questo contesto. “Fricà”, invece, è l’immediata traduzione dell’italiano “fottere” con gli stessi significati: imbrogliare, far sesso, fregare.

Attualmente è difficile sentirlo ancora, ma un tempo, a Napoli, “andare a farsi una sciammeria” significava “andare a far sesso”. I più attenti alla lingua sapranno che, di base, “sciammeria” significa “vestito elegante”. Quindi cosa lega questo al sesso? Con molta probabilità nacque come uno sfottò fra giovani: se vedevi un tuo amico particolarmente agghindato senza un ragionevole motivo, allora, con molta probabilità, si era preparato per incontrare una donna fino al punto che la “sciammeria” è diventata sinonimo di probabile sesso.

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“Cornuto” e “Scornacchiato”: tutti i modi in cui vengono usate in napoletano

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cornaTutti i napoletani, almeno una volta, hanno usato i termini “cornuto” e “scornacchiato” per offendere qualcuno. Sono parole italiane che, però, nella nostra lingua hanno assunto un’importanza tale da diventare parte della lingua napoletana. Si tratta di quelle particolari offese che, nell’uso comune, sono diventate generiche ed universali al punto di venire adoperate in qualunque circostanza: qualcuno che ci ha sorpassato in maniera poco corretta, qualcuno che ci ha fatto un torto o, semplicemente, non ci sta a genio. Eppure, si tratta di due termini con un significato ben definito.

Di “cornuto” abbiamo già parlato e viene utilizzato per definire un uomo che ha la sfortuna di avere una compagna poco fedele. Molto simile il significato di “scornacchiato”, con soltanto una piccola differenza: parliamo di un “cornuto” consapevole, che è a conoscenza della infedeltà e la sopporta senza battere ciglio. Nonostante quanto sembra, le due parole hanno derivazioni diverse. Mentre “cornuto” deriva dalle corna che metaforicamente incoronano il capo del tradito, “scornacchiato” no: va rapportato, infatti, alla parola “scorno”, ovvero “vergogna“. Il vero significato sarebbe quello di “svergognato”, una persona che non si imbarazza della sua condizione di “cornuto“.

Ovviamente, i due termini si sono allontanati molto dal loro significato principale. “Cornuto” può essere indicativo di una persona molto cattiva o antipatica e le sue corna implicherebbero una somiglianza con il re di tutti i mali, il Diavolo. In ogni caso, quindi, non ha mai una valenza positiva, anzi, possiamo considerarla una delle offese più dispregiative della lingua napoletana. “Scornacchiato“, invece, proprio per la sua origine non è sempre offensivo: capita, ad esempio, di sentirlo dire anche a bambini particolarmente vispi. Lo “scornacchiato“, come persona priva di vergogna, non è quasi mai visto negativamente e il termini si riduce ad un semplice “sfottò”.

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Miettete scuorno! Perché si dice “scuorno” e da dove deriva? Ecco la risposta

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vergogna

“Miettete scuorno!”, “Te vuò mettere scuorno?”, “Che scuorno!”, “Me piglio scuorno” sono solo alcuni dei modi di dire napoletani usati in situazioni spiacevoli in cui è stata commessa un’azione imbarazzante o confusa. Il termine “scuorno” indica la “vergogna”, anche se per i partenopei vi è una differenza sostanziale fra queste due parole. Mentre la vergogna è un sentimento personale che l’individuo può vivere anche in maniera privata senza che i conoscenti ne sappiano nulla, lo “scuorno” deve essere reso noto. La gravità dell’azione è tale che coinvolge più persone puntando l’attenzione sul colpevole.

scuorno

Ma da dove deriva questo termine? L’etimologia sarebbe greca. La parola “scuorno” trarrebbe origine dal vocabolo ellenico αισχύνομαι che vuole dire appunto “vergognarsi”. Per altri invece, come il linguista Raffaele Bracale, “scuorno” deriverebbe dal latino “cornum”. La “s” aggiunta avrebbe un valore privativo quindi il significato sarebbe “senza corno o corna” cioè “scornato”. Per comprendere meglio il legame tra l’avere “scuorno” e l’essere scornati possiamo pensare ai cervi. Quando questi splendidi animali lottano per conquistare il cuore di un esemplare femminile si scontrano utilizzando le proprie corna. Il cervo che per primo viene privato di un’appendice esce sconfitto dallo scontro e si ritira allontanandosi dal territorio. Non avendo più una delle due corna quel cervo sarà identificato da tutti gli altri suoi simili come colui che ha subito una sconfitta perché si è dimostrato il più debole. Così come l’animale senza la propria estremità perde il rispetto dei suoi simili e viene per questo esiliato, così l’uomo che si deve mettere “scuorno” è sottoposto alla gogna pubblica.

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Pare ‘a sporta d”o tarallaro: che significa e perché si dice così? Ecco la risposta

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Taralli napoletani

Uno degli antichi detti più famosi di Napoli è senza dubbio Pare ‘a sporta d”o tarallaro che, tradotto letteralmente, significa “Sembri il cesto del tarallaro”. La cosiddetta “sporta”, infatti, era nient’altro che un cesto di vimini intrecciato, ricolmo di caldissimi taralli nzogna e pepe, che il tarallaro portava in giro per la città poggiato sul capo.

Pare ‘a sporta d”o tarallaro, dunque, è un’espressione verbale che si usa per indicare colui che, per una qualsiasi ragione, sia solito spostarsi continuamente ricordando, in tal modo, gli antichi venditori di taralli che erano soliti girare la città in lungo e largo per smaltire l’intera merce di giornata.

fortunato-o-tarallaro

Tale espressione in verità sembrerebbe avere più significati e così oltre a questa prima interpretazione ne esiste un’altra, meno nota, secondo la quale l’antico detto si presterebbe ad indicare colui che per pura pigrizia consente ad altri di approfittare delle proprie cose o addirittura di sé stesso. Ciò trae origine dall’antica usanza degli occasionali clienti dei tarallari di servirsi autonomamente, rovistando nella cesta del venditore alla ricerca del tarallo più gradito.

Trae spunto da tale detto anche un altro modo di dire “Si te tirassene na sporta ‘e taralle, nun ne cadesse uno nterra“. Tale espressione, sicuramente più cattivella, è usata per alludere alla scarsa fedeltà del partner di colui cui la si rivolge. Il detto, infatti, che si traduce letteralmente con “Se ti tirassero una cesta di taralli non ne cadrebbe uno a terra” fa riferimento alle numerose “corna” del soggetto in questione.

Oggi l’antica figura del tarallaro ambulante non esiste più, ma ciononostante non sono pochi coloro che, svoltando l’angolo di una qualsiasi stradina di Napoli, vorrebbero ancora incrociare il famosissimo Fortunato, uno degli ultimi tarallari napoletani, per acquistare per poche monete un caldissimo e tradizionalissimo tarallo artigianale.

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