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Channel: Proverbi napoletani Archives - Vesuvio Live
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Sevaiola, l’origine di questo insulto napoletano risale ai falegnami

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Prostituzione

ProstituzioneSicuramente uno dei peggiori insulti che si possa proferire nei confronti di una donna, più giovane o matura che sia. La parola (o meglio parolaccia) sevaiola indica una persona di sesso femminile di facili costumi e di scarso valore morale, in genere proveniente da quartieri malfamati, dove spesso la "vita" di strada è l'unica via per sopravvivere. Insomma, sevaiola sta un po' per prostituta, meretrice e tutte le sue varianti più edulcorate o anche più volgari. Ma spesso ci si riferisce con questo lemma anche a ragazze "sporche" non solo moralmente ma pure dal punto di vista dell'igiene intima. Aspetto che conferma la provenienza della suddetta sevaiola da ambienti caratterizzati da grande povertà e da totale mancanza dei più comuni comfort. L'origine del termine, in realtà, deriverebbe da un lavoro umile, ma assolutamente dignitoso, ovvero quello del falegname. In effetti in alcuni vocabolari antichi, anche di italiano, si ritrova l'espressione "sevaiolo", poi tramutata in "segaiolo", con chiaro riferimento alle operazioni svolte dai falegnami per lavorare il legno, andando su e giù o avanti e indietro con le braccia e le mani. Ebbene, tali gesti e tale termine, i napoletani lo riferiscono - come tutti all'ombra del Vesuvio sanno - all'atto maschile della masturbazione. Ma se quest'azione è praticata da una ragazza a un maschio, ecco in questo caso si potrà dire (linguisticamente parlando, secondo gli usi del dialetto napoletano) che si è in presenza di una sevaiola.

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‘O Pucunaro: cosa significa il termine napoletano

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Scaltro, sveglio, scafato. In una sola parola - ovviamente napoletana - nu pucunaro. Sarebbe questo il significato di un termine piuttosto diffuso tra i cittadini partenopei e utilizzato quasi sempre in termini di bonario apprezzamento. L'origine della parola pucunaro sarebbe da ricercarsi, strano ma vero, molto in alto. No, il Divino e il Paradiso non c'entrano nulla; bensì è negli uccelli che risiederebbe il segreto del significato di pucunaro. Già, perché in particolare tale termine dialettale proverrebbe dalla parola pecune (da cui deriverebbe anche la parola piccione), che stanno ad indicare le piume. Un particolare tipo di piumaggio, però, quello appuntito e acuminato delle prime piume, che stanno ad indicare la crescita del volatile, una sorta di sua maturazione. Allo stesso modo pucunaro indica una persona che ha avuto diverse esperienze di vita e che quindi è ormai capace di affrontare le difficoltà, anche con furbizia e intelligenza, una persona alla quale difficilmente gliela si fa.

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“Quanno nun sai fa ‘o scarparo nun rompere ‘o cazzo ‘e semmenzelle”

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‘Quanno nu’ sai fa o scarparo nu rompere o cazz’ e semmenzelleAttuale quanto mai in quest'ultimo periodo di infettivologi, scienziati e tuttologi apparsi in tv e sui social network a dire la loro sul famigerato coronavirus: ‘Quanno nun sai fa 'o scarparo nun rompere 'o cazzo 'e semmenzelle'! Tradotto, se non sai fare il calzolaio, non creare problemi ai chiodini. Già, perché se la traduzione letterale di questo detto fa pensare immediatamente che l'antico proverbio napoletano - che alcuni addirittura attribuiscono al grande Totò - si riferisca a chi suole riparare le scarpe pur non essendo un vero e proprio calzolaio; la verità è che dietro il linguaggio figurato della proverbiale (appunto!) saggezza popolare, si cela un significato ben più sottile e arguto al tempo stesso. ‘Quanno nun sai fa 'o scarparo nun rompere 'o cazzo 'e semmenzelle, in effetti, è un modo come un altro per dire che se non si è del mestiere (qualunque esso sia, non obbligatoriamente il calzolaio o comunque un lavoro manuale), è meglio lasciar fare o (soprattutto ultimamente) dire agli esperti in materia, perché altrimenti si finisce solo col rompere le scatole, col creare più problemi di quanti la situazione che si ha dinanzi già ne presenti.

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I Ciù ciù, le caramelle gommose napoletane delle bancarelle

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Ci sono sapori che sono in grado di catapultarti nel passato, di rievocare i dolci ricordi dell'infanzia. E il ciù ciù è uno di questi. La dolce caramella gommosa ricoperta di zucchero tipica delle bancarelle delle feste di piazza. Il termine in napoletano viene usato anche per dare un nomignolo affettuoso ad una persona adorabile, che significa "dolcezza". Il ciù ciù era una piccola caramella, grande non più di 15 millimetri di diametro, ricoperta di zucchero semolato. Poteva essere gommosa, tanto da appiccicarsi ai denti o anche croccante che quando si masticava si rompeva diffondendo in bocca tutto il suo liquido aromatico (limone, menta, fragola, ecc.), la cosiddetta "preta 'e zuccaro". Il termine ciù ciù è una voce onomatopeica che deriva dal parlottìo e dalla giuggiola (pasticca di zucchero e gomma arabica derivata dalla pianta di giuggiole), una caramella gommosa che si succhia con il continuo sfregamento della lingua che ricorda appunto quello del parlottío. Ma potrebbe derivare anche da “jujube”, colorate caramelle gelatinose al sapore di frutta, conosciute nel West America già dalla fine dell’800 e diventate poi famose in tutto il mondo.

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‘E scartapelle: che cosa sono e perché vengono chiamate così

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In origine fu il latino, poi dal francese e dallo spagnolo si è incuneato sino al napoletano. È la storia linguistica dello scartapelle, anche detto 'o sciartapelle, colui che scartava e selezionava le vecchie carte, distinguendo quelle non più utilizzabili o consultabili da quelle ormai deteriorate dal tempo e dall'usura. L'etimologia, infatti, risale al latino scapus chartarum, ovvero fascicolo di carte. Con l'avvicendarsi, in seguito, delle lingue neolatine (o romanze) l'espressione è stata trasferita anche al francese e allo spagnolo. Due lingue ben "conosciute" dai napoletani d'epoca medievale e anche moderna, viste le dominazioni degli Angioini prima e degli Aragonesi poi, fino a Carlo di Borbone. Con il passare del tempo, però, oltre a cambiare lingua il termine ha in parte modificato anche il proprio significato, o meglio lo ha esteso in generale non solo alle vecchie cartacce ma a tutti gli oggetti in pessimo stato. Oggi, infatti, scartapelle indica proprio l'insieme degli oggetti di cui le persone si disfano, perché non più in condizione da poter essere utilizzati. C'è, però, una mitologica figura che è in grado comunque di recuperarli o di riutilizzarli, ovvero 'o sapunaro. Una persona accompagnata perennemente dal suo fedele e insostituibile carretto, nel quale riporre tutti gli svariati oggetti di cui le persone dovevano in qualche modo disfarsi. Per lo più oggetti ingombranti e che oggi andrebbero consegnati presso le isole ecologiche per essere smaltiti secondo procedure ben codificate. Alla figura dello scartapelle è naturalmente associato anche il verbo scartapellà, che indica appunto l'azione del rovistare tra le vecchie carte, ma anche tra la mobilia antica e persino tra i rifiuti per cercare qualche oggetto ancora in qualche modo recuperabile. E proprio rovistando tra le vecchie fiabe di un grande autore napoletano della seconda metà del 1500, Giambattista Basile, si può scoprire come nel suo "Lo cunto de li cunti" (anche titolato "Lo gliommero", ovvero "Il gomitolo") il termine scartapelle sia chiaramente menzionato: «[...] spampanate, sterliccate, mpallaccate, tutte zagarelle, campanelle e scartapelle, tutte shiure, adure, cose e rose, ecc.».

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Me pare nu sciarabballo: non ditelo a una signora, per carità! Il significato

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sciarabballo

sciarabballoDire a una donna, specialmente se si tratta di una signora, che sembra uno sciarabballo è tutt'altro che lusinghiero, anzi, ci permettiamo di sconsigliarvelo vivamente: rischiereste una "solenne bastonatura", per usare le parole del grande Totò. La città di Napoli, dove attraverso i secoli sono passate genti provenienti da tutto il mondo, conserva i segni di tali passaggi nelle tradizioni, nell'architettura, nella toponomastica e, sopra ogni cosa, nella propria lingua, nei termini che più o meno comunemente sono utilizzati dai partenopei. 'O sciarabballo è un termine di origine francese proveniente da char a bancs, ossia un carro a panche molto modesto trainato per lo più da asini, qualche volta da cavalli: l'espressione transalpina si è trasformata "nella bocca" dei napoletani, dando vita a un sostantivo nuovo dove, probabilmente, è stata determinate l'influenza del verbo abballà, ossia "ballare". 'O sciarabballo era infatti un mezzo di trasporto molto umile, spesso trasandato e sbilenco, usato dalla povera gente dell'entroterra napoletano per recarsi in città sia per commercio, sia per sbrigare propri affari. Data la sua struttura non solida il viaggio era poco confortevole, per cui 'o sciarabballo dondolava ed oscillava, ovvero abballava, termine usato in Napoletano anche per indicare che un oggetto non è stabile: di un tavolo non ben saldo a terra, per esempio, si dice che abballa. Questo tipo di carro, inoltre, era chiamato da coloro che abitavano in città 'a cafuniera, perché trasportava appunto i cafoni, i contadini della provincia. Il motivo per cui, dunque, non bisogna mai dire a una donna che sembra uno sciarabballo è che in questo modo le stiamo dicendo che è sgangherata, deformata, estremamente brutta e grassa, il cui abbondante adipe si muove, trema, abballa quando cammina o si muove.

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Dai piaceri della tavola a quelli del letto: 15 termini napoletani derivanti dal greco

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[caption id="attachment_367478" align="aligncenter" width="600"] “Bacco, Cerere e le Sirene Partenope, Igea e Leucosia con il dio Sebeto” - Paolo De Matteis[/caption] Non è l'Olimpo di Zeus e degli altri dei pagani, ma di certo Napoli è senza dubbio una città greca: storia, mito e leggenda si fondono e confermano questa eziologica certezza. Basti pensare, ad esempio, all'etimologia del nome stesso: Neapolis, in greco nuova città. E' storia. In origine, però, il mito e la leggenda: Palepolis, la città vecchia. Ovvero Pathenope, figura anch'essa nata presso le genti d'Omero. Per chi avesse ancora dubbi, comunque, un ampio, succulento e sensuale (per non dire erotico) elenco di termini napoletani che derivano proprio dalla lingua greca, in particolare da quella antica. Nel dialetto napoletano, vera e propria lingua - poiché dotata di regole ben precise - non si può far a meno, infatti, di porre in rilievo l’etimologia di termini relativi a tutta una serie di aspetti diversi della nostra vita e del nostro modo di essere. A partire dal carattere molto solare ma anche un po' mutevole e malinconico del cittadino partenopeo. Troviamo così parole quali “pazziare”, che riproduce fedelmente il suono del verbo παίζω (paizo), il cui significato è “giocare, scherzare”; e “nzallanuto”, che deriva dal termine σεληνιάω (seleniào), letteralmente essere lunatico. Riferito sempre al modo di comportarsi è la parola "zimmaro", che sta per caprone, nel senso di zotico, villano, uomo dalle maniere poco gentili ed eleganti e che proviene da "χιμμάρος" (xìmaros), indicante appunto il maschio della capra. Vi sono poi parole che fanno riferimento all'economia: “accattare”, che foneticamente rimanda a κτάομαι (ktàomai), letteralmente “acquistare”; “putèca”, con cui oggi si intende negozio, ma la cui origine è da ricercarsi in ἀποθήκη (apothèke), in realtà una farmacia. Se comunque l'acquisto fatto dovesse risultare sgradito, si potrà sempre definirlo una “ciofèca”, la cui provenienza è da attribuirsi a κωφός (kofòs), letteralmente “sgradevole”. I più rancorosi e violenti potrebbero addirittura passare alle manieri forti e cominciare a schiaffeggiare il malcapitato rivenditore: anche “pacchero”, costituito da πᾶς (pàs), tutto, e χείρ (chèir), mano, - infatti - deriva dal greco e vuol dire "tutta la mano". La Grecia, dunque, da culla della civiltà a culla del dialetto napoletano (benché molte altre siano le lingue che hanno influenzato la nostra, spagnolo e  francese su tutte). In effetti è proprio a letto che l'influenza greca sembra dare il meglio di sé. Proverbiale il termine “pucchiacca”, espressione che nasce dall’unione di πῦρ (pùr), fuoco e κοῖλος (koilos), antro, ergo “antro di fuoco”. Meno famoso ma di grande effetto il “rafaniello”, la cui genesi si deve al verbo ῥαφανιδόω (rafanidòo), indicante una perversa pratica con cui si punivano gli adulteri. Infatti il vocabolo sta per “infilare un ravanello nell’ano”. Chiunque fosse colto in flagrante nel tradire la propria consorte veniva pubblicamente umiliato proprio con questa penitenza. Dai piaceri e dispiaceri del sesso a quelli della tavola. Diversi, in effetti, anche i termini napoletani derivanti dal greco per quel che riguarda gli alimenti. Termini specifici per la frutta, quali, "purtuallo", o "cresommola", ad esempio, hanno origine proprio dalla lingua ellenica. I greci chiamavano “portokalos” l’arancia, diventato poi "purtuallo" in napoletano. Stessa cosa dicasi per “crisòmmola”, composto da χρυσός (krusòs) che si traduce con “oro” e μῆλον (mèlon), “frutto”, e quindi “frutto d’oro”. Dalla frutta alla verdura il passo è breve: "petrusino", prezzemolo, deriva dal greco antico petroselinon (erba). Da segnalare anche “cantèro”, da κάνθαρος (kàntharos), con cui si soleva indicare una bacinella a forma di vaso da notte; e o' "mesale", la tovaglia, derivante da misalion, antico fazzoletto di stoffa. Tra le espressioni e non singole parole che ci hanno tramandato i nostri antenati greci anche il famoso "Piglià père", ovvero prendere fuoco, dall'antico πῦρ (a fuoco).

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‘O petrusino: perché in napoletano il prezzemolo si chiama così

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'O petrusino, dal latino petroselinum, è il prezzemolo, nota erba aromatica presente nella maggior parte delle salse e delle minestre della cucina napoletana. Il prezzemolo, con la sua “traduzione” napoletana, è da sempre oggetto anche di proverbi e modi di dire, che arricchiscono ulteriormente il già florido folklore partenopeo. Tanti certamente conosceranno il detto “petrusina ogni mmenesta”, riferito a chi si infila in ogni discussione anche se non gli riguarda. Anche in italiano , infatti, “prezzemolina” è una persona presente ovunque ma con l’accezione negativa di “invadente”. Ma ce ne sono altri ancora più significativi per la tradizione popolare, anche se forse meno conosciuti, come i seguenti: - Chello È bbello 'o petrusino va 'a gatta e nce piscia a coppa...; - Chella mmuglierema è bbella, ce vuó tu ca ‘a zennije. Il primo, letteralmente, vuol dire “il prezzemolo è bello, poi la gatta vi minge su”, espressione da intendersi in senso antifrastico: il prezzemolo non solo non è rigoglioso, poi la gatta vi minge anche sopra. Questo è il commento di chi si trova in una situazione precaria e non solo non riceve aiuto per migliorarla, ma si imbatte in chi la peggiora ulteriormente. Il secondo è ugualmente una riflessione amara, del tipo: "mia moglie è bella, e non è un fior di virtù, manca solo che tu le faccia dei cenni per indurla e sollecitarla al tradimento!". E il gioco di parole tra l'italiano e il dialetto lo ritroviamo anche nella vita di Joe Petrosino, agente di polizia italiano naturalizzato americano che visse nell'800 e che veniva deriso dai suoi connazionali per il suo cognome, che si avvicina molto alla versione dialettale della parola prezzemolo di alcuni gerghi meridionali: “Con Lu Petrosino la polizia americana diventerà più saporita ma resterà indigesta”, dicevano. Petrosino, inoltre, è anche un comune siciliano in provincia di Trapani, di circa 8mila abitanti. Come potrete notare, quindi, prezzemolo è un termine molto utilizzato non solo nel dialetto napoletano ma anche in altri dialetti meridionali. Vi lasciamo con la traduzione di prezzemolo nei dialetti del Sud Italia: Napoletano: petrusino Sicilianopirrusinu Pugliesepetrusinu Sardopedrusèmi Calabresepetrusinu Fonti: dialettando.com; wikiquote.org.

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E’ un nobile che vale due candele: il proverbio Napoletano spiegato da Alberto Angela

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[caption id="attachment_416001" align="aligncenter" width="600"]nobile due candele Screen Stanotte a Napoli[/caption] Sono tanti i modi di dire e i proverbi usati dai napoletani per racchiudere in poche parole concetti complessi. Ironia e genialità che nel corso dei secoli vengono tramandati di generazione in generazione e che raccontano come era la Napoli del passato.

SEI UN NOBILE CHE VALE DUE CANDELE: COME NASCE

Nel corso della puntata di 'Stanotte a Napoli' andata in onda la notte di Natale, Alberto Angela ha voluto spiegare un modo di dire tutto partenopeo: "Sei un nobile che vale due candele". Ma cosa vuol dire tale espressione? E' lo stesso conduttore a raccontarcelo mostrando le bellezze del Teatro San Carlo fatto costruire da Carlo di Borbone e i cui lavori finirono proprio nel giorno del suo onomastico. Come spiegato da Alberto Angela: "Oggi vedete delle luci elettriche artificiali che illuminano il Teatro, ma all'epoca c'erano tante candele, centinaia di candele che creavano una bellissima atmosfera. E c'era l'abitudine per ogni nobile di mettere delle candele davanti al proprio palco. E più c'erano candele, più era alto il grado di nobiltà di questa persona. Tanto è che a Napoli c'è ancora un'espressione che dice: "E' un nobile che vale due candele". Con questa espressione quindi si indicava un nobile non molto nobile, una persona che appunto metteva davanti al palco un numero esiguo di candele e che non era all'altezza del re.

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Aversa festeggia San Paolo, a lui è legato il detto: “Quando vedi i santi in argento è finita la processione”

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[caption id="attachment_418457" align="aligncenter" width="600"] Foto Fb Alfonso Golia[/caption] Oggi, 25 gennaio, la città di Aversa festeggia il Suo Santo Patrono San Paolo. A causa delle restrizioni per il covid, anche quest'anno non ci sarà la storica processione ma i cittadini potranno omaggiare il santo con un ricco programma di eventi.

AVERSA, OGGI SI FESTEGGIA SAN PAOLO: ORIGINI DI UN DETTO

A renderlo noto è il sindaco Alfonso Golia che in un post sul suo profilo Facebook spiega anche dove nasce un famoso detto partenopeo legato alla sua processione: "La festa della Conversione di San Paolo, Patrono della città, è insieme a quella della Madonna di Casaluce, la festività più sentita dai cittadini aversani. Come leggiamo nel programma delle Celebrazioni di quest’anno, il perdurare della pandemia non impedirà di celebrare con la dovuta solennità la Festa nella Chiesa Cattedrale. Mancherà la tradizionale processione per le vie della Città e che, almeno fino agli anni ottanta del secolo scorso, si svolgeva secondo un rigido cerimoniale sia nella disposizione dei partecipanti sia nel percorso che, all’inizio, ricalcava l’antico circuito perimetrale della città. La festa iniziava il giorno prima quando le statue dei Santi partecipanti alla processione venivano trasferiti dalle chiese di provenienza alla cattedrale dove rimanevano fino al giorno dopo. Il 25 gennai , poi, le statue sfilavano secondo l’importanza dei santi che rappresentavano. I busti in argento di San Donato e San Sebastiano precedevano quello di San Paolo, che chiudeva la processione. Da qui il detto aversano “ quando vedi i santi in argento è finita la processione “ , che si snodava sempre tra una ala di folla entusiasta e devota. Anche quest’anno, possiamo dire, che la festa è stata preceduta dal tradizionale vento di San Paolo. Tradizionale nelle famiglie è la preparazione della lasagna e delle palle di San Paolo, polpette nel cui impasto vengono aggiunti pinoli ed uva passa. San Paolo è strettamente legato alle origini di Aversa, l’antico villaggio Verzulus fu chiamato “ Sanctum Paulum ad Averze in onore e ricordo del suo passaggio per Aversa, La festa ci fa riscoprire ogni anno la devozione del popolo aversano verso il suo patrono e ci interroga sul nostro bisogno di conversione. E’ fondamentale mantenere viva questa tradizione perché in essa vivono la storia millenaria della città e le origini profondamente cristiane della nostra cultura. Del suo passaggio nel territorio aversano , Paolo di Tarso ha lasciato in eredità l’ annuncio e la testimonianza della trasformazione che l’incontro con Gesù ha fatto nella sua vita. Il messaggio dell’amore gratuito di Dio per l’uomo è un messaggio universale, rivolto a tutti gli uomini. Alla comunità religiosa il compito di annunciare questa parola, alla comunità civile quello di creare le condizioni per una vita dignitosa per tutti. Il mantenere e far comprendere il significato ed il valore di questa festa e delle nostre tradizioni ai giovani deve essere un impegno comune, affinché non vada perso questo patrimonio culturale e di Fede vissuta. Il messaggio di fratellanza che ne scaturisce sia per loro e per tutti noi una luce per comprendere i valori sacri della vita ed impegnarsi per una società più giusta e solidale. Buon San Paolo a tutti".

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Cosa significa l’antico proverbio napoletano nel Commissario Ricciardi: ”‘O Padreterno nun è mercante ca pava ‘o sabbato”

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Nella nuova puntata, andata in onda Lunedì del Commissario Ricciardi si recita un antico proverbio napoletano, " 'O Padreterno nun è mercante ca pava 'o sabbato". Il Commissario ha un dono soprannaturale, quello che definisce "il fatto", cioè vedere i fantasmi delle persone morte e sentire le loro ultime parole. Infatti, sarà la cartomante brutalmente uccisa a citare queste parole a Ricciardi che dovrà scoprirne il significato per risolvere il caso. Il Commissario però, non ne capisce il significato ed il perché di quelle parole pronunciate dalla donna poco prima di morire. Sarà il suo braccio destro ad aiutarlo a comprendere questo proverbio napoletano che letteralmente significa "Dio (il Padreterno) non è un mercante al quale si paga il sabato". Il brigadiere Raffaele Maione (Antonio Milo) spiega che questo proverbio significa che quello che fai prima o poi lo paghi. Se fai qualcosa il Padreterno ti punisce o ti premia come decide lui. Non c'è una scadenza precisa come i debiti degli uomini.  Il sabato era la giornata in cui anticamente venivano saldati i debiti settimanali. Quindi il detto, che affonda le sue radici nella cultura religiosa, vuole dire che Dio non è un mercante, non si può decidere quando "saldare il debito" con Lui. Sarà il Padreterno a presentarci il conto perciò bisogna vivere consapevoli che ogni azione avrà una sua conseguenza sia terrena che spirituale. Questo è quanto si nasconde dietro l'enigmatico proverbio napoletano pronunciato nel corso della puntata del 'Commissario Ricciardi'. La cartomante uccisa, si scopre essere anche un usuraio, una persona che imbrogliava la gente per ricavare un profitto. Infatti, raggira una ricca donna sposata tormentata dall'amore per un altro uomo che si faceva leggere le carte nel tentativo di trovare risposte. Quando però si rende conto che la donna è incinta decide di porre fine alla truffa perché appunto: " ' O Padreterno nun è mercante ca pava' o sabbato", anche se ormai è troppo tardi.

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“Spacca e mmette ô sole”: cosa significa l’antico proverbio napoletano

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pomodori secchi

Sono molti i proverbi napoletani che ad oggi sono conosciuti un po' in tutta Italia. D'altronde, il modo di dire partenopeo altro non è che la valvola di sfogo del popolo, un'espressione colorita, molto spesso cruda o anche tenera. Uno di questi è l'antico proverbio "Spacca e mmette ô sole", noto ormai a tutti, ed usato per molte situazioni differenti. Letto così e dando spazio all'immaginazione, i significati potrebbero essere tanti e differenti, ma scopriamo insieme cosa significa davvero e soprattutto da cosa deriva.

"Spacca e mmette ô sole": significato e da cosa deriva

L'espressione originariamente faceva riferimento ai contadini che usavano tagliare, cioè spaccare, pomodori o fichi ed esporli al sole per l'essiccazione. Di conseguenza, maggiore era la quantità di pomodori o fichi seccati e messi al sole, maggiore era la ricchezza del contadino e maggiore il vanto che ne derivava. Ad oggi, significa menar vanto di inesistenti e non conclamate ricchezze o anche meriti per davvero posseduti. Quindi, ci si riferisce a coloro che si vantano di avere o meno qualcosa di materiale o anche morale, dandosi così gloria a sproposito. In parole povere, ci si riferisce a colui che viene identificato con il termine di "gradasso", ovvero chi ostenta grandezza con ciò che ha, ciò che fa e anche di ciò che è. A tal proposito, un altro modo per definire una persona del genere è proprio "spaccone", che deriva proprio dal proverbio "spacca e mmette ô sole". Inoltre, altri termini sinonimi possono essere anche squarcione, granezzuso e così via. Fonti: - http://lellobrak.blogspot.com/

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‘O Ricco Pellone: cosa significa e chi è questo personaggio della lingua napoletana

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'O Ricco Pellone

La lingua napoletana con la vastità di antichissimi modi di dire rappresenta ancora oggi uno scrigno di conoscenze e saggezza. Tra le espressioni ricordiamo 'o ricco pellone, poco diffusa nella modernità, tramandata oralmente di generazione in generazione. I più anziani sicuramente almeno una volta nella vita avranno sentito questa espressione che ha origini bibliche. Per ricco pellone si intende una persona che ostenta le sue ricchezze e si ricollega ad una parabola del Vangelo di Luca.

'O RICCO PELLONE NEL VANGELO

Nella parabola di Gesù raccontata dal Vangelo di Luca (16,19-31) incontriamo due personaggi: il ricco Epulone ('o ricco pellone, ndr) e Lazzaro. Di seguito il passo: C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. 20 Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, 21 bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. 22 Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23 Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. 24 Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. 25 Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. 26 Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. 27 E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. 29 Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. 30 E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. 31 Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

'O Ricco Pellone, significato della parabola

Il passo evangelico come per ogni parabola divulga un insegnamento: l'esistenza del Paradiso ma anche del tormento dell'Inferno, così come si incita a seguire gli insegnamenti di Dio e di comunicare le sue volontà. Per questo motivo Lazzaro diviene il simbolo di povertà e di sofferenza che è sempre premiata da Dio quando si accetta e si spera nella sua Misericordia divina. FONTI: www.santiebeati.it; www.laparola.net

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Detto napoletano: ‘A femmena nun se sposa ‘o ciuccio pecché le straccia ‘e lenzole

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'A femmena nun se sposa 'o ciuccio pecché le straccia 'e lenzole

[caption id="attachment_441050" align="aligncenter" width="600"] Detto napoletano:'A femmena nun se sposa 'o ciuccio pecché le straccia 'e lenzole[/caption]  'A femmena nun se sposa 'o ciuccio pecché le straccia 'e lenzole. Si tratta di un antico detto napoletano che racconta la condizione delle donne nei tempi passati. Sesso femminile che col passare degli anni grazie alla cultura e ad una maggiore indipendenza economica è riuscito a liberarsi dalle catene dei matrimoni di convenienza economica. E il proverbio in questione spiega la sudditanza della donna nei confronti dell'uomo nell'epoca antica.

'A femmena nun se sposa 'o ciuccio pecché le straccia 'e lenzole. Cosa significa

La traduzione in italiano del detto è: La donna non si sposa con l'asino perché può stracciare le lenzuola. Il significato va incastrato nell'antichità quando la donna per emanciparsi e uscire dalla famiglia di origine che viveva in povertà aveva bisogno di sposarsi con un uomo capace di mantenerla economicamente. Per questo motivo non era un fatto straordinario la circostanza che donne giovani e anche molto belle si sposassero con uomini molto più avanti con l'età.

Il significato del ciuccio

In italiano possiamo tradurre la parola "ciuccio" in asino. Ritornando alle condizioni di povertà delle donne, queste ultime pur di vivere in condizioni di benessere avrebbero sposato chiunque glielo avrebbero consentito, addirittura anche un ciuccio. Se non fosse per la paura che le avrebbe strappato le lenzuola del letto con gli zoccoli.

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Unità di misura in napoletano: da nu filo d’uoglio a ‘na carta ‘e maccarune

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Unità di misura in napoletano

[caption id="attachment_441642" align="aligncenter" width="600"] Unità di misura in napoletano. Oliera napoletana[/caption] Unità di misura napoletane. La lingua partenopea oltre ai proverbi, fonti di eterna saggezza, nel suo meraviglioso scrigno di tesori conserva ancora dopo secoli di storia delle parole ed espressioni in uso nel linguaggio colloquiale e casalingo in grado di raccontare l'antichità applicata alla modernità durante una giornata di vita quotidiana. Ne è un esempio lampante quando esprimiamo le unità di misura per contare, pesare e misurare. Nu surzo 'e vino  Si fa riferimento ad una minima quantità di vino o di qualsiasi altra bevanda che è possibile ingerire rapidamente anche trattenendo il respiro. Surzo ha origine dal verbo latino "sorbere"che significa "bere". Nelle osterie anticamente si beveva soprattutto vino, serviti a tavola in fiaschi o in piccole bottiglie chiamate quartini. Nu filo d'uoglio Ancora oggi lo utilizziamo spesso quando si cucina. Questo modo di misurare la quantità di olio necessaria nel condimento o preparazione di un alimento trae origine dai pizzaioli napoletani che già molto tempo fa utilizzavano l'oliera napoletana. L'oggetto consente di la caduta a filo dell'olio. Nu panaro d'ova Questa espressione si è persa nel corso del tempo. Faceva riferimento all'ovaiola che vendeva le uova per strada contenute in un panaro, un cestino intrecciato in vimini. Invenzione tutta napoletana. 'Na nzerta 'e castagne Quando si parla di 'nzerta si intende in napoletano il ramo che si desidera innestare su una vecchia pianta. Deriva dal verbo latino "inserere" che significa appunto "inserire". Nel linguaggio tramandato negli anni è recepito come una fronda ricca di frutti. 'Na carta 'e maccarune Molto tempo fa i maccheroni venivano venduti sfusi o comunque a peso. Il salumiere li pesava e poi li incartava con le mani avvolgendoli in una carta pesante di colore azzurro. Non si sa di preciso "una carta" a quanto corrispondesse con ogni probabilità ogni carta 'e maccurune corrispondeva ad un chilo.

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Detto napoletano: ‘Na vota è prena, ‘na vota allatta e nun ‘a pozza mai vattere: cosa significa

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'Na vota è prena, 'na vota allatta e nun 'a pozza mai vattere

[caption id="attachment_441820" align="aligncenter" width="600"] Detto napoletano[/caption] Detto napoletano: 'Na vota è prena, 'na vota allatta e nun 'a pozza mai vattere. E' un antichissimo detto napoletano che, per fortuna, nel corso degli anni ha smarrito il suo significato originario per assumerne ai nostri tempi uno diverso.

Detto napoletano: la traduzione e il suo significato originario

E' abbastanza semplice tradurre in italiano l'espressione "Na vota è prena, 'na vota allatta e nun 'a pozza mai vattere": una volta è incinta, un'altra volta sta allattando e non posso mai picchiarla. Per comprenderne il senso è necessario scorrere molto indietro i fogli del calendario riportandoli ai tempi più antichi. Il sesso maschile dominava socialmente, economicamente e anche fisicamente la donna. Per questo motivo non erano rari i casi in cui il marito per l'unico scopo di dominare le azioni della moglie facesse ricorso all'uso della violenza. Solo quando la donna viveva lo stato di gravidanza o di allattamento si asteneva, pur di conservare l'integrità del figlio che ne aveva assoluta necessità di crescere e nutrirsi.

Cosa significa adesso

Sebbene in desuetudine nel linguaggio colloquiale e casalingo, qualche volta vi sarà capitato di ascoltarlo. L'espressione oggi fa riferimento a tutte quelle persone che pur di sottrarsi ad un impegno, ad una azione sgradita, adducono giustificazioni anche banali.

La condizione della donna

Nonostante la società e la cultura nei secoli sia andata a modificarsi, la condizione della donna sebbene mutata risulta ancora in un rapporto asimmetrico rispetto al sesso maschile. E ciò lo riscontriamo sia a livello sociale che economica. Non a caso oltre ai femminicidi in costante aumento, le donne faticano a trovare lavoro, spesso anche più precario.

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‘Na femmena e ‘na papera arrevutajeno Napule

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Na femmena e na papera arrevutajeno Napule

[caption id="attachment_442788" align="aligncenter" width="600"] Na femmena e na papera arrevutajeno Napule[/caption] 'Na femmena e 'na papera arrevutajeno Napule. Un antico proverbio napoletano ancora in uso nella modernità. La lingua napoletana del resto si contraddistingue per la sua versalità nel riuscire a trovare per ogni situazione della vita quotidiana una espressione tipica in grado di descriverne il suo significato più profondo.

'Na femmena e ìna papera arrevutajeno Napule. Traduzione

La traduzione letterale di questo proverbio è semplice. Una donna e un'oca misero a soqquadro tutta Napoli Il significato Il proverbio localizza l'evento nella sola città di Napoli. Da qui se ne deduce che è nato nella cittadina partenopea.

Il significato

Secondo le fonti tradizionali si tratta, però, di un fatto mai accaduto nella realtà ma inventato facendo riferimento all' idea antica che si aveva della donna. Sesso femminile visto come chiacchierone, rumoroso nel modo di parlare tanto da paragonarlo ad un'oca che starnazza. Secondo la tradizione popolare sarebbe addirittura in grado di demolire la tranquillità cittadina semplicemente facendosi accompagnare da un'oca. Insieme sarebbero in due a starnazzare e ci riuscirebbero. È chiarissima l idea sessista che si aveva della donna in questo proverbio. Per fortuna nei secoli certi pre-concetti sono cambiati sebbene viviamo in una società ancora profondamente maschilista. Tra le antiche espressioni "dedicate" alle donne intrise di sessismo rintracciamo ad esempio: Na vota è prena, ‘na vota allatta e nun ‘a pozza mai vattere 

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Mannà a accattà ‘o Tozzabancone: l’antico detto napoletano

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Tozzabancone

[caption id="attachment_443404" align="aligncenter" width="600"] Tozzabancone[/caption] Manna accattà 'o tozzabancone e 'o pepe. E' un antica espressione napoletana che di tanto in tanto nel corso della vita quotidiana abbiamo sentito pronunciare da qualcuno con qualche anno in più. Spesso senza conoscerne il significato moderno e nella maggior parte dei casi ignorando la storia che si cela dietro questa frase.

Manna accattà 'o tozzabancone e 'o pepe

Per comprendere il significato di questo detto partenopeo è necessario intraprendere un viaggio nel passato. Quando Napoli soprattutto nel Dopoguerra viveva in condizioni di povertà. Le famiglie si presentavano numerose. I figli considerati alla stregua di forza-lavoro, indispensabili per contribuire al bilancio familiare. Erano altri tempi, ormai passati. Ma è in questo periodo che nasce l'espressione. I genitori pur di trascorrere un po' di tempo in intimità a casa erano costretti a mandare un figlio a comprare il tozzabancone e il pepe.

Tozzabancone non esiste

In realtà il Tozzabancone non esiste. I genitori previo accordo con un bottegaio, complice della situazione, mandavano il figlio a comprarlo. O in alternativa il pepe. Il salumiere o macellaio di turno intratteneva il ragazzino in modo che marito e moglie potessero trascorrere dei momenti in libertà. Il bottegaio raccontava loro delle storie e alla fine era solito regalare dei dolciumi ai ragazzini che potevano successivamente tornarsene a casa felici per aver soddisfatto la richiesta di mamma e papà. E più sereni ancora i genitori che erano riusciti a godersi un momento di intimità.

Tozzabancone. Il significato moderno

Quando oggi si manda qualcuno a comprare il tozzabancone ha un chiaro intento: liberarsene. Non per trascorrere un momento di intimità con il partner ma, perché in quel momento ritiene inutile e/o fastidiosa la presenza di quella persona.

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Chello che vo’ Maria ‘o trova pa’ via: il significato del detto napoletano

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Sogni

[caption id="attachment_120938" align="aligncenter" width="600"] Chello che vo' Maria 'o trova pa' via[/caption] Chello che vo' Maria 'o trova pa' via. È un antico modo di dire napoletano ancora oggi in uso nel linguaggio colloquiale quando ci riferiamo al raggiungimento di un obiettivo. La traduzione in lingua italiana è piuttosto semplice: quello che desidera Maria, lo trova strada facendo. La scelta del nome Maria non è del tutto casuale, in quanto molto comune tra le donne quando nei secoli scorsi nasce il proverbio. Oltre ad agganciarsi ad un volere celestiale riferito alla Madonna che può realizzare i nostri desideri.

Il significato del detto

Il detto rispecchia il classico fatalismo che contraddistingue la cultura di molti napoletani. Non si attendono grandi fortune e ricchezze in tempi certi e immediati ma si rassegnano ad aspettare anche molto tempo prima di veder realizzate le proprie aspettative di vita, trovandole lungo la strada. La via indica il percorso della vita. I tempi di realizzazione non sono mai certi ma dipendono dal fato, quindi tanto meglio riporre la fretta in un cassetto e armarsi di pazienza che prima o poi accadrà quanto desiderato per tanto tempo.  

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Ce vo’‘a ciorta pure ‘a ffa ‘a zoccola: il significato del detto napoletano

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Ce vo' 'a ciorta pure pe ffa' 'a zoccola

[caption id="attachment_144741" align="aligncenter" width="600"] Ce vo' 'a ciorta pure pe ffa' 'a zoccola[/caption] Ce vo' 'a ciorta pure 'a ffa 'a zoccola È un antico detto popolare nato a Napoli nei secoli scorsi di frequente utilizzato nel linguaggio contemporaneo ogni qual volta si lega un evento al destino.

Ce vo' 'a ciorta pure pe ffa' 'a zoccola. Traduzione del detto popolare

Tradurre in lingua italiana il proverbio è semplice: ci vuole fortuna anche per riuscire a fare la prostituta.

La parola zoccola. Origine e significato

La parola zoccola ancora oggi si riferisce ad una donna di facili costumi, non necessariamente ad una prostituta. Nasce nel Settecento quando le nobildonne napoletane di via Toledo calzavano delle scarpe con un tacco dalla forma simile ad uno zoccolo. Degli zoccoletti. Così i loro lunghi vestiti non si sporcavano nel fango della strada. Negli anni a venire le prostitute dei Quartieri Spagnoli imitarono queste donne indossando delle scarpe simili chiaramente di fattura meno pregiata.

La parola ciorta. Origini e significato

Per quanto riguarda la parola ciorta, questa si riferisce al fato. Dal latino sors, cioè sorte. E la sorte, si sa, può manifestarsi benevolmente ma anche tradursi in eventi spiacevoli. Ha a che fare con il fatalismo tipico del napoletano che in molti casi della vita, lega la riuscita o meno di un evento desiderato al fattore fortuna/sfortuna. Il fato come la fortuna è cieco. Quindi anche per riuscire positivamente a fare la prostituta è necessaria la buona sorte.

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